11 Maggio 2025, IV Domenica del tempo di Pasqua

11 Maggio 2025, IV Domenica del tempo di Pasqua

Prima Lettura – Dagli Atti degli Apostoli At 13. 14. 43-52
Salmo 99
Seconda Lettura – Dal libro dell’Apocalisse di San Giovanni apostolo Ap 7, 9. 14-17

 

Dal Vangelo secondo Giovanni Gv 10, 27 – 30

Sia che ci si interroghi ai livelli alti della cultura, sia che ci si interroghi con la saggezza dell’esperienza quotidiana, il problema che sempre ci tormenta è quello del senso della nostra vita e delle vicende di cui siamo spettatori. Quella sul «senso» non è semplicemente una risposta utile all’intelletto, è una risposta di cui la coscienza ha bisogno, a cui ha diritto. Ed è la risposta che non abbiamo. Tutti i tentativi di ricomporre in una geometria razionale gli avvenimenti della storia — grande o piccola — tutte le presunzioni di identificare ciò che è reale con ciò che è razionale, si spezzano nel nostro cuore e dinanzi alla nostra mente, ogni giorno. La risposta della fede non è una risposta da spendere sul piano stesso delle filosofie della storia e sul piano delle spiegazioni provvidenzialistiche a cui si attacca la religiosità superstiziosa: le risposte della fede sono tutte risposte rimandate. Secondo l’insegnamento dell’Apocalisse, esse sono scritte tutte in un libro, sigillato da sette sigilli, che verrà dissigillato l’ultimo giorno. Tutte le lacrime vi sono scritte, tutte le ingiustizie subite vi sono scritte, tutte le speranze buone deluse vi sono scritte: nulla sfugge allo scriba dei cieli. Nella visione profetica del Veggente di Patmos, l’Agnello spezza, uno dopo l’altro, i sigilli del libro. Nel brano odierno è il sesto sigillo che è spezzato. E la risposta, contenuta nel libro, viene immaginosamente tradotta nella «moltitudine immensa di ogni popolo, di ogni lingua». Questa moltitudine rappresenta il genere umano nella sua universalità. Dobbiamo tener conto di che cosa potesse significare un’immagine del genere all’interno di comunità di credenti in cui era ancora forte l’attaccamento al particolarismo culturale ed etnico. Erano comunità prevalentemente giudaiche e il loro universalismo, nato alla luce della Resurrezione, non era poi di così grande respiro. L’idea che tutti gli uomini fossero chiamati alla salvezza era un’idea più astrattamente riconosciuta che vissuta in pratica. E fa effetto nei brani di oggi il fatto che due volte venga usata l’immagine della moltitudine: abbiamo «la moltitudine immensa» che abita nella città di Dio, al termine della fatica e delle tribolazioni della storia, e abbiamo poi — ben collocata in una città, ad Antiochia di Pisidia — una «grande moltitudine» che corre ad ascoltare la Parola. I Giudei furono pieni di gelosia nel vedere questa moltitudine. Ecco, in questa gelosia dei Giudei, abbiamo il segno di un male che percorre tutta la storia. Anche oggi le comunità dei credenti sono incapaci di misurarsi con le ampiezze reali della salvezza.

Di quale moltitudine si parla? Quante volte, sedendo sulla cattedra da professore o nelle conversazioni o nelle segrete riflessioni, vengo turbato dal fatto che, nonostante gli atteggiamenti di autosorveglianza mentale, però, trascinato dal mondo di cui faccio parte, mi accorgo che la mia attenzione — o insegnando, o parlando, o riflettendo — si posa sempre sugli uomini grandi, importanti, maestri, capi politici, e solo con fatica riesco a fissar gli occhi sulla moltitudine. Che poi, per lo più, nel nostro linguaggio è termine generico, spersonalizzato, che non tiene conto dei battiti del cuore, delle lacrime degli occhi: la moltitudine, la massa! Noi abbiamo un pensiero strutturalmente individualistico che, anche se ci consente rapporti critici con la realtà storica passata e presente, però, in fondo ci incatena e ci condiziona. Noi parliamo di una guerra ricordando chi l’ha vinta e dimenticando le ossa disseminate nelle pianure dove si è combattuto: quelle ossa sono anonime. Questo sguardo — lo sento — è il mio peccato, è il nostro peccato. Perché è precisamente lo sguardo che Dio non ha. Perché o la storia ha un altro senso (scusate se uso anche questa parola, la «storia», che non è biblica, ma fa parte del nostro linguaggio), o veramente l’unica reazione moralmente seria del nostro cuore è la disperazione.

Noi sappiamo che ha un senso. L’immagine del Buon Pastore ci riconsegna oggi il filo del discorso giusto. C’è una storia che è vissuta nell’amore e dall’amore e che non semina tribolazioni, ma le porta nel cuore, semmai, e diffonde gioia, solidarietà, pace, vicendevole aiuto: è una storia minima, ma estesa, che investe moltitudini immense di cui non ci accorgiamo. Del resto, i nostri stessi organi d’informazione non narrano — perché non fa notizia — che due persone si amano: narrano che una ammazza l’altra. Cioè l’amore è senza storia, perché rifugge dagli ambiti dove i gesti e le azioni e le parole fanno rumore. Non che qui voglia fare l’esaltazione del piccolo e dell’anonimo — che potrebbe essere vizio decadente — voglio fissare il mio sguardo, cristianamente, sulla realtà effettiva di una storia che è scritta, vissuta e narrata dall’amore e da niente altro. È una storia dove hanno molto spazio le tribolazioni: questo è certo. Perché — ve lo dice anche l’esperienza parziale e completa che avete vissuto — non appena noi ci decidiamo a vivere soltanto secondo questa legge dell’amore così come ci è espressa da Gesù, che consiste nel vivere per l’altro fino al dono totale di sé, ecco che entriamo in conflitto strutturale con la realtà della Storia, non riusciamo a sfondare i meccanismi troppo potenti, troppo tutelati e dal potere e dalla cultura dominante. L’amore è sempre stolto, non riesce mai a trovare le parole che gli diano prestigio nella piazza pubblica della cultura ufficiale. A meno che non ci siano alti accenti poetici, grandi creazioni letterarie che allora rientrano nel patrimonio utilizzato dalla cultura dominante, che legge, commossa, pagine d’amore e scrive, feroce, pagine di crudeltà. Così abbiamo fatto sempre, anche nelle nostre scuole: liriche d’amore e narrazioni di guerre. Dove la volontà punta sulla seconda parte: il resto è una parentesi insignificante di consolazione.

Da “Il Vangelo della Pace” vol 3, anno C

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