13 Aprile 2025, Domenica delle Palme

13 Aprile 2025, Domenica delle Palme

Prima Lettura Dal libro del profeta Isaia Is 50, 4-7
Salmo 21
Seconda Lettura Dalla prima lettera di San Paolo ai Filippesi Fil 2, 6-11

Dal Vangelo secondo Luca Lc 22, 14 – 23, 56 ì
Passione di nostro Signore Gesù Cristo secondo Luca


Il momento alto della liturgia della parola odierna è la narrazione della passione di Gesù Cristo
secondo l’evangelista Luca. Noi l’ascolteremo in un’edizione abbreviata e dopo farò alcune
riflessioni ma avvertendo che mai come in questo caso il vero messaggio è quello che viene
dalla stessa parola di Dio che ascolteremo. Vorrei suggerivi di ascoltarla non solo con spirito di
fede ma aprendo la vostra coscienza alle situazioni pubbliche e private nelle quali c’è come una
prosecuzione di questo mistero della passione di Cristo che si rinnova in ogni sofferenza oscura
dell’uomo. E solo attraverso questo congiungimento operato dalla fede che noi possiamo
continuare a dare un senso alla storia umana che altrimenti sarebbe come circoscritta
dall’assurdo, visto che tutto ciò che di nobile, di bello, di grande l’uomo partorisce è fatalmente
annientato dall’onnipotenza del mistero di iniquità. I sogni ci cadono addosso, le nostre
costruzioni sono fragili: la disperazione sarebbe l’ultima parola ragionevole se non ci fosse una
speranza che nutre se stessa in questo messaggio che attraversa i secoli. E con questo spirito che
ora ci disponiamo ad ascoltare la parola di Dio. Quando ci domandiamo, anche semplicemente
sulla spinta della nostra coscienza umana, che senso ha la vita, e più generalmente che senso ha
il cammino dell’umanità, noi ci troviamo sempre di fronte a questa misura inesorabile che
spegne ogni risposta: tutto precipita, prima o poi, nella morte. L’esistenza trova il suo senso nel
negativo della morte, nel nostro ingresso nel non essere. Anche la coscienza scientifica, che
illumina ormai il nostro sguardo sul futuro del mondo, ci fa certi che anche l’ordine del mondo
fisico dentro cui trova la sua cornice la storia dell’uomo, anche questo ordine è relativo e si
consuma man mano che esaurisce l’energia da cui è nato. Davvero tutto ciò che esiste esiste per
la morte. Questa certezza si insinua nel privato, negli spazi minimi di esperienza vitale che ci
sono propri, e li svuota dal di dentro: tutto è vanità. Ma, ci domandiamo, è proprio così? Quello
che in noi è nobile, che ha una sua categorica e perentoria evidenza è l’emergere, sul divenire
delle cose, dei valori morali, di gesti e di atti che sono compiuti non sulla spinta dei
meccanicismi che governano tutto ma per una specie di autosufficienza causale che è dentro di noi. Siamo anche capaci, per fedeltà ad un’idea, di entrare liberamente nella morte. Lo testimonia l’esperienza dell’uomo. C’è nell’uomo qualcosa che non si riduce al giro fatuo delle cose che nascono, crescono e muoiono. Questa esperienza fa sì che l’evento della croce, che abbiamo sentito raccontare, abbia avuto sempre, per la coscienza degli uomini indistintamente, una sua arcana potenza. Qui siamo di fronte ad un uomo, Gesù di Nazareth, che va verso la morte non
con i privilegi di esenzione dal soffrire, come a volte noi ci immaginiamo, ma calandosi in pieno
nelle tenebre, fino a quel grido in cui le disperazioni degli atei di tutti i tempi trovano
benedizione: «Dio mio perché mi hai abbandonato?». Quello che ci colpisce in questa narrazione
è soprattutto la solitudine assoluta in cui Colui che aveva beneficato tutti viene a trovarsi. In
questa solitudine, in questa riduzione al nulla dell’esistenza dell’uomo più giusto che abbia
calpestato la polvere della terra noi troviamo il limite estremo di cui vi parlavo prima: la vanità
del tutto; una umanità che può condannare a morte l’innocenza, si dichiara e si svela per quella
che è. E questo il primo significato che volevo sottolineare in questa rapida riflessione. Su
questo punto, nonostante le nostre illusioni storicistiche, non ci sono progressi. La società
organizzata secondo criteri di potere ai tempi di Gesù è perfettamente la nostra, non dobbiamo
illuderci sulle metamorfosi di superficie. Il potere ha sempre una sua logica che fo rende succube
alle proprie ragioni che stritolano l’uomo in qualsiasi caso in cui le sue ragioni di potere sono
messe in questione. Noi possiamo chiamarlo potere democratico, ordinato all’uomo, ma c’è un
momento di rottura — lo vediamo universalmente, soprattutto se i nostri occhi sono liberi dalle
manipolazioni ideologiche — in cui di fronte al potere l’uomo è inerme. La grandezza di questa
pagina è che in essa, quasi in controluce, la logica del potere — di qualsiasi natura, anche quello
sacro, nessuno escluso — è di uccidere l’uomo che pone l’uomo al di sopra di tutto. Gesù è
venuto a dare il grande annuncio che il sabato è per l’uomo e non l’uomo per il sabato, che nel
linguaggio decifrato vuol dire che nessun ordine, sacro o profano, è al di sopra dell’uomo. Ma
dire questo è dire qualcosa di terribile, specie se quando si parla dell’uomo non si parla
dell’uomo con tutti i diritti garantiti, con la carta di identità in tasca, con il passaporto a posto ma
si parla dell’uomo randagio, dell’uomo senza valore, dell’uomo ultimo. Noi dobbiamo misurare i
poteri di questo mondo non entrando nel palazzo o nei paraggi del palazzo, dove in qualche
modo si irradia la partecipazione al privilegio, ma tra tutti coloro che sono fuori. Se così faccio,
il mio sguardo non può non correre, guidato anche dalle consapevolezze che ci vengono offerte
oggi dalle informazioni, in tutti gli angoli della terra. Io so che il potere è iniquo. Quando dico
questo so bene di rischiare qualcosa di grave: una specie di fatale rassegnazione al potere iniquo.
Non è così, perché il nostro compito è di spezzare questa macchina che crocifigge e crocifigge i
giusti. I calvari del mondo sono innumerevoli. Questo monte del cranio, il Golgota, è il monte
emblematico e quanti, mentre parliamo qui, subiscono le stesse cerimonie tragiche del potere che
secondo la legge condanna i giusti! Noi sentiamo che in quella morte c’è l’esplodere di un
significato universale, sentiamo che il senso del vivere lo dobbiamo leggere non nelle tavole di
bronzo in cui il potere definisce l’uomo e stabilisce le regole dell’uomo perché anche quelle
tavole di bronzo sono piedistalli del potere. La verità dell’uomo è nell’ombra dell’emarginazione.
La seconda verità fondamentale è questa: anche quelli che erano vicini a Gesù, che avevano
partecipato alla sua straordinaria e breve avventura di annunciatore del regno si diradano e
scompaiono. La solitudine estrema di Gesù non è quella significata dai nemici che lo
crocifiggono ma è quella significata dagli amici che fuggono, dai discepoli che lo tradiscono.
Questo non è un episodio chiuso nel passato remoto, è una norma costitutiva del divenire umano.
Questo riguarda anche la Chiesa che celebra le liturgie. Fu il capo della Chiesa a dire:
«Quest’uomo io non lo conosco». Non è che si tratti di un fatto unico, tante volte nei fatti, nei
comportamenti i successori di Pietro hanno fatto lo stesso quando hanno esercitato un potere
brutale che ha giustificato — tanto per tornare al nostro tema — lo sterminio di milioni di indios.
Tutto questo è avvenuto. Ecco che questa passione ci riconduce ad una specie di annichilamento
degli scenari della storia e a cogliere il bandolo drammatico dentro cui si annida la verità.

Nessuno è esente da questa follia tragica, omicida in cui siamo inseriti. Non abbandono me
stesso alle rievocazioni della storia che abbiamo vissuto, anche in questi ultimi anni, ma sento
che c’è una complicità tragica nello sterminio dei deboli. È qui che ora mi colloco, senza la
preoccupazione di giustificare la politica nel suo ordine proprio. Questo lo faremo al tempo
giusto; qui dobbiamo calarci nella exinanitio, nella kénosis, nell’annientamento che è la verità
profonda della passione dell’uomo giusto.
La terza verità è che dinanzi a questa catastrofe ci sono le possibilità più impreviste. Pensate che
il riconoscimento di Gesù come Figlio di Dio avvenne da due lontani: da un malfattore che è
crocifisso e che è il primo ospite del regno — nemmeno Maria ha avuto il privilegio di sentirsi
dire: «Oggi sarai con me» — e dal centurione pagano che si batte il petto e riconosce che è
Figlio di Dio. La fede non ha luoghi prestabiliti, non è garantita da nessuna appartenenza, non
s’identifica con le professioni conclamate, con le cerimonie ma è un evento che scaturisce, come
una scintilla improvvisa, dalle coscienze e forse da quelle più lontane. Dobbiamo pensare a tutto
questo. E importante sentirci dalla parte di coloro che non si considerano giusti ma che sentono
il peso dell’iniquità. Noi siamo, dinanzi a questa misura assoluta, dei peccatori bisognosi di
misericordia. Tutto questo — e siamo all’ultima riflessione — è attraversato da un’apertura verso
la potenza del Dio amore perché l’ultimo atto della vicenda di Gesù è quello in cui Egli consegna
il suo spirito. E lì che, in qualche modo il nulla si capovolge perché in quel punto c’è
l’abbandono reciproco di due amori: l’amore dell’uomo giusto, che ha esaurito il suo compito e
vive nella solitudine, si abbandona all’amore del Padre invisibile che sembra averlo
abbandonato, e il Padre si abbandona al Figlio. La resurrezione è questo altro atto: il nodo che
stringe, nel segreto dei segreti, tutte le cose, che non è esprimibile né dimostrabile. C’è o no un
amore che è l’altra sponda, un amore che si abbandona a noi, ma non attraverso le forme che
vorremmo: il miracolo — «Se sei Figlio di Dio dì che ti salvi» —. Dio non segue queste trafile,
non è il Dio dei miracoli. Il miracolo di Dio è un miracolo che non si vede e perciò non è un
miracolo. Però, nell’intimo, lo è, in quanto è l’abbandono dell’amore di Dio all’uomo e
l’abbandono dell’uomo all’amore di Dio. E questo il nodo. Le due facce della realtà — quella
invisibile, eterna in cui Dio è, e quella temporale e provvisoria in cui l’uomo è — si innestano in
una reciprocità che è il mistero dei misteri ed è il baricentro verso cui noi andiamo come foglie
ingurgite. E il punto decisivo. Che Dio ci guidi a vivere quel momento anche nelle anticipazioni
interiori che dobbiamo farne, noi creature destinate alla morte, quel punto di incontro dove
l’amore dell’uomo, questa suprema istanza che non si riduce alla storia, alla fisicità del divenire
ma sovrasta le misure relative del tempo, e l’amore di Dio che non sappiamo nominare, che è un
amore inerme, debole anch’esso perché non segue le vie della potenza che noi concupiamo ma è
come se ci fosse perché il volto vero dell’Essere è il non essere. Il vero modo di entrare in noi
dell’amore potentissimo è quello dell’assoluta impotenza. Questo è il mistero pasquale nella sua
cifra recondita.

Da “Il Tempo di Dio”, omelia integrale di Padre Balducci del 12 Aprile 1992

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