15 Giugno 2025, 11° Domenica T.O.
Prima Lettura Dal libro dei proverbi Prv 8. 22-31
Salmo 8
Seconda Lettura Dalla lettera di San Paolo apostolo ai Romani Rm 5, 1-5
Dal Vangelo secondo Giovanni Gv 16, 12-15
Più e più volte, quando la liturgia della Parola ce ne ha dato l’occasione, ho sottolineato con forza che, nel tempo in cui siamo, dobbiamo recuperare la nostra fede in Dio distinguendo il Dio di Gesù Cristo dal Dio delle ideologie, dal Dio dei sistemi politici. Di fatto, il Dio che Gesù annunciò si contrapponeva al Dio della realtà culturale del suo tempo, al Dio della stessa Sinagoga. Il suo era il Dio la cui sostanza misteriosa è l’amore di oblazione, che si manifesta nella scelta dei reietti, e si contrappone direttamente alla presunzione del mondo che, nelle sue realtà strutturali, è il potere politico, la cultura con cui le classi al potere dominano le classi oppresse, è la ricchezza che è come la divinità — “mammona di iniquità” — che governa praticamente tutta la macchina di questo mondo.
Pronunciare con fede evangelica il nome di Dio significa perciò preoccuparsi che questo nome non faccia numero col nome di Dio che pronunciano i grandi, i tiranni, i ricchi, i soddisfatti, i filosofi… Il Dio di Gesù Cristo è nascosto in quell’ombra impenetrabile del Venerdì Santo dove — come tante volte ho detto — la sua presenza ha la forma dell’assenza. Proprio quando Dio non c’è, c’è; quando invece c’è e si grida nelle piazze, nei cortei, e se ne portano i simboli sulle teste incoronate, nelle case opulente, forse non c’è.
Questa preoccupazione, che oggi esprimiamo in un quadro di riferimenti così diverso, è — se si pensa bene — la stessa preoccupazione che ha guidato il cristianesimo dei primi secoli, quando si riversò nell’area di quella straordinaria cultura in cui l’immagine di Dio dominava il pensiero filosofico, in cui tutte le linee della riflessione — almeno quella più prestigiosa — si trovavano congiunte nell’idea di Dio. Il pericolo della fede cristiana era di restare assorbita da questa cultura potente. L’insistenza quasi parossistica con cui i maestri della fede affermavano la Trinità di Dio era il modo più giusto per distinguere il Dio di Gesù Cristo dal Dio dei filosofi.
E si arrivò così, nel 325, a quella definizione della Trinità della quale anche noi viviamo e che ripetiamo continuamente nelle nostre professioni di fede. Il senso perenne di quella definizione è che il mistero di Dio non può essere identificato con gli schemi della ragione umana; le contraddizioni formali tra l’unità della natura e la Trinità delle persone valgono ad impedire una equazione spontanea tra la realtà di Dio e la nostra idea di Dio. È come se fossimo invitati a riconoscere che, per quanto si ragioni, tra noi e Lui c’è come una cortina di tenebre. Egli è il Santo, il Separato, l’Inesprimibile; la sua verità è sempre più in là delle parole con cui la annunciamo.
Questa premessa mi serve per riprendere in mano un’enunciazione fondamentale che avete ascoltato or ora nel Vangelo, quella che riguarda la verità. Già il termine “verità” ha un senso del tutto diverso nel registro evangelico e in quelli della scienza, dove c’è una verità scientifica, e della filosofia, dove c’è una verità filosofica. La verità di cui parla Gesù è una verità che diviene, che non avrà la sua pienezza se non alla fine dei tempi. Non è dunque una verità che io debba mostrare come un oggetto.
Quando parlo della verità evangelica, parlo non di cose reali nel senso che siano là come oggetti da ricercare: vi parlo di cose future, e quindi affido me e voi all’attesa. È una verità interna alla speranza. Se vi parlo della vita eterna non vi so dire che cosa è, perché essa è una verità nella speranza e avrà la sua pienezza nel futuro.
Ognuno di noi ha un’educazione alle sue spalle; ognuna delle parole che io uso è un universo che ho ereditato. Nessuno vive senza questa eredità del mondo che ci ha preceduto. La mia certezza di fede la esprimo con parole e con concetti che sento assolutamente inadeguati nei confronti della stessa esperienza di vita che sto facendo. Questo divario fra ciò che penso e la verità piena mi fa soffrire: è la vera tribolazione del mio spirito.
Non ci sono solo le tribolazioni della carne, quelle a cui forse allude Paolo quando parla delle tribolazioni che dobbiamo subire e che producono la pazienza, la quale pazienza produce la speranza. Le tribolazioni più profonde, quelle che noi teniamo ai margini perché ne abbiamo paura, sono le tribolazioni che attraversano come una frattura, un trauma, l’interno del nostro spirito.
Da “Il Vangelo della Pace” vol. 3, anno C