6 aprile 2025, V Domenica Quaresima
Prima Lettura Dal libro del profeta Isaia Is 43, 16-21
Salmo 125
Seconda Lettura Dalla prima lettera di San Paolo ai Filippesi Fil 3, 8-14
Dal Vangelo secondo Giovanni Gv 8, 1-11
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Le parole che chiudono il brano della lettera di Paolo ai Filippesi ci offrono un punto di
vista adatto per riflettere sul messaggio della liturgia odierna che è quello della novità che
sta nascendo. «Ecco, io faccio una cosa nuova! Non ve ne accorgete? domanda Dio
attraverso il profeta Isaia. Dovremo riflettere su quali siano i tratti della novità sulla quale
dobbiamo tener fissi gli occhi e soprattutto qual è l’organo capace di percepire la novità
che vale, quella che apre e realizza in progressione il regno di Dio. E’ la coscienza. Il
brano del Vangelo odierno, il noto brano in cui Gesù perdona l’adultera, è una
celebrazione del primato della coscienza contro la legge o al di là della legge. Quella di
oggi è una giornata in cui, formalmente, si vive la celebrazione della coscienza: ogni
cittadino sceglie secondo coscienza. Il problema grave è sapere cosa è la coscienza e qual
è la coscienza adatta a percepire la novità, a liberarsi dal passato e a muoversi verso il
futuro. E un tema essenziale per una giusta comprensione della prassi cristiana. E facile
capire perché una pagina così straordinaria abbia creato imbarazzo anche fra i primi
cristiani per cui essa non si trova in molti codici antichi del Vangelo. E una pagina che
scotta, che inquieta soprattutto se si pensa al rischio, a cui essa è esposta, di una
interpretazione che vanifichi l’importanza della legge, un’interpretazione permissiva che
nelle comunità rigorose dei primi tempi era inaccettabile. Ma è proprio in questa pagina,
come ln altre del Vangelo, che viene evidenziato quel rapporto misterioso fra Gesù e la
coscienza umana su cui mi avviene spesso di insistere. Intanto vorrei isolare dinanzi alla
vostra immaginazione l’immagine di Gesù che scrive per terra. E un atteggiamento
misterioso in cui io amo vedere una specie di ironica trascendenza di Gesu sullal egge
scritta e perfino sulla legge di Mosè. Gesù non ha scritto nulla, non è autore da mettere tra
gli altri autori; i suoi Vangeli non sono i suoi Vangeli ma ciò che di lui hanno scritto
quelli che hanno ascoltato e trasmesso. C’è però da credere che fra lui e tutto ciò che è
stato scritto di lui resti come un vuoto in cui soffia lo Spirito. E lo Spirito che dà vita, non
la parola scritta. La parola scritta senza lo Spirito dà morte. Lo sappiamo che è così.
Specialmente le parole che si attribuiscono a Dio, proprio in virtù di questa loro presunta
assolutezza, possono diventare terribili strumenti dell’odio dell’uomo verso l’uomo. Gesù
non c’entra, è fuori ed è accessibile solo alla coscienza che, attraverso le parole che ci
sono state trasmesse di Lui, prende contatto con Lui che è la parola vivente nella cui
vicenda, che trova il sommo di compiutezza e di manifestazione nella croce e nella
resurrezione, apre una prospettiva ad ogni coscienza umana. Detto questo possiamo
subito domandarci, sempre appoggiandoci alla pagina della Scrittura, che abbiamo
ascoltato, che significa aver fede in Lui. Questa pagina di Paolo è, per quanto mi riguarda,
estremamente inquietante perché viene proprio a cogliere una situazione in cui,
generalmente, siamo venuti a trovarci in questi ultimi tempi. Questo dimenticare le cose
passate, questo abbandonare il passato per protendersi al futuro è un atteggiamento, anche
dal punto di vista antropologico, di decisiva importanza e, storicamente parlando, lo
vediamo, oggi è davvero decisivo. A me pare che siamo in un momento della nostra
cultura in genere, e della cultura politica in specie, in cui c’è una impotenza a pensare al
futuro. E una impotenza mortificante perché noi eravamo fieri di una civiltà che educava
le coscienze a guardare al futuro come un progetto da realizzare, un progetto da
considerare una benedizione per tutti gli uomini. Anche la cultura laica aveva mutuato dal
messianismo ebraico-cristiano questo amore per la prospettiva sul futuro. Ora c’è una
specie di blocco sul futuro, il passato ci riprende. Questo è vero anche in senso
paradossale. In tante regioni della nostra Europa il ritorno al passato diviene formale.
Potrei dire che nella lettera di Paolo il passato è il peccato. Peccare vuol dire cedere al
passato nel senso che — schematizzando la nostra struttura umana — noi siamo degli
esseri programmati dal passato. Anche biologicamente lo sappiamo. Nemmeno il colore
dei nostri capelli dipende da noi ma da un programma che è scritto dentro di noi. Il nostro
modo di pensare — non ci illudiamo — è stato programmato. Fin dalle prime parole che
ci hanno Insegnato, dalla scuola che abbiamo cominciato a frequentare siamo stati
programmati e il passato ci ha modellato. Noi non possiamo che riconoscere in questa
nostra immanenza al passato la nostra validità umana. Però che cosa consiste la nostra
dignità? Qual è il punto in cui il passato si rompe come un cerchio che spezza la nostra
circonferenza per aprirsi all’altro? È la coscienza.
Ernesto Balducci
Da “Il Tempo di Dio”