8 Giugno 2025, Pentecoste
Prima Lettura Dagli Atti degli Apostoli At 2. 1-11
Salmo 103
Seconda Lettura Dalla lettera di San Paolo apostolo ai Romani Rm 8, 8-17
Dal Vangelo secondo Giovanni Gv 14, 15-16. 23-26
Ogni volta che, nel giro annuale delle festività, ci avviene di imbatterci, come oggi, in questa della Pentecoste, sentiamo che il messaggio di questa festività è fra tutti quello più adatto a mettere in crisi la lunga, millenaria presunzione che ci ha partorito e ci ha allevato. Esso ci mette di fronte alla necessità di conciliare quel che, a livello del semplice ragionamento, rimane non conciliabile. Da una parte c’è qui il perenne, assoluto messaggio dell’unità di tutte le genti che devono arrivare a formare come un solo corpo. Noi siamo in grado, più che mai nel passato, di avvertire come questo ideale è necessario ma è ancora lontano dall’essere realizzato.
Membra diverse del corpo della famiglia umana, ora noi possiamo conoscerci reciprocamente, scoprire che la storia di ciascuna di queste porzioni della famiglia umana è stata una storia particolaristica, che in molte di esse ha fermentato fino alla follia la pretesa di essere il tutto, la pretesa di sostituirsi alle altre parti e di integrarle in sé fino a distruggerle nella loro individualità.
Questo discorso può essere fatto sia a livello religioso sia a livello culturale: la storia che abbiamo alle spalle è una storia di guerre compiute in vista di una universalità sotto cui agiva lo spirito di potenza, che è lo spirito che uccide le lingue, non le sveglia; che appiattisce gli idiomi umani, non li rispetta; che fa dell’unità una forma di violenza e non di libertà. Alle spalle non abbiamo nessuna forma di unità che possa rassomigliare a quella che noi poniamo come ideale del nostro agire storico e anche del nostro agire come cristiani.
Che ne è oggi di questo unico corpo della famiglia umana? Le informazioni scientifiche, che ormai sono a disposizione della cultura media, ci mostrano questa famiglia umana solcata da divisioni incredibili proprio ora che abbiamo tutti gli strumenti materiali perché l’unità si faccia. Sappiamo anche, per informazione non sospetta, che la divisione fra gli affamati e i sazi è una divisione di cui siamo responsabili noi: potremmo cancellarla in pochi anni, se volessimo.
È qui la radice del senso di frustrazione che mi pare ormai pervada quella cultura che appena trent’anni fa era sicura di sé: abbiamo la possibilità, finalmente, di unire il mondo e l’impossibilità morale di farlo. Quando uno ha percezione che una cosa doverosa è possibile e però egli non ha forze per realizzarla, è nell’angoscia: meglio sarebbe stato non averlo capito. Ma noi l’abbiamo capito.
Se volete sapere qual è la radice della tristezza che genera follie — perché quando si è in questa contraddizione, la ragione vacilla — il perché di questi rigurgiti di irrazionalismo violento, a mio giudizio si deve chiamare in causa la cattiva coscienza in cui siamo ormai insediati e su cui volteggiano le retoriche che appena ieri ci commuovevano.
Le grandi parole di civiltà, e perfino i grandi discorsi cristiani, si muovono nell’abisso oggettivo come puri fantasmi, come tentativi di seduzione che non toccano il cuore. Siamo dunque così insediati nella contraddizione.
Da “Il Vangelo della Pace” vol. 3, anno C