1 Ottobre 2017 – 26^ DOMENICA TEMPO ORDINARIO- Anno A

1 Ottobre 2017 – 26^ DOMENICA TEMPO ORDINARIO- Anno A

1 Ottobre 2017 – 26^ DOMENICA TEMPO ORDINARIO- Anno A

 

Io non considero un tesoro, da custodire con gelosia, la mia cultura, il mio essere di razza bianca, il mio essere in un paese civile, il mio essere cattolico. Io metto da parte tutto questo. Cosa mi resta? Mi resta quello che accomuna a me il povero accattone, il povero immigrato che non ha modo di parlarmi e che ha bisogno di tutto.

 

PRIMA LETTURA:  Ez 18, 25-28- SALMO: 23- SECONDA LETTURA:  Fil 2, 1-11- VANGELO:  Mt 21,28-32

 

Se noi volessimo usare la semplice, eppure così profonda contraddizione – fra chi dice sì e non fa e chi dice no e fa – espressa dalla pagina evangelica che abbiamo appena ascoltato, potremo dire, globalmente parlando, che il male di quello che chiamiamo cristianesimo è che esso è la religione del sì. Per essere ancora più esplicito, è una grande organizzazione di parole in cui i comandamenti, i precetti, i comportamenti si sono duplicati in una rete di certezze, in una fraseologia ripetuta, accettata la quale ci consideriamo a posto. Il cristianesimo, si dice, è la religione che afferma che tutti gli uomini sono fratelli. Noi, felici di essere cristiani diciamo: gli uomini sono tutti fratelli, tutte le creature sono figlie di Dio. È il cristianesimo. Noi siamo convinti, lo diciamo e continuiamo cosi. Se poi andiamo a veder la realtà effettuale ci accorgiamo che niente di questo è vero. Per una specie di censura collettiva, uno di quei meccanismi che la psicoanalisi ha messo in luce, per cui ciò che ci disturba lo rimoviamo, vivendo in questo universo di parole abbiamo rimosso la percezione della realtà e chiunque la ricorda è un disturbatore. È questo, in parole semplicissime, il dramma del cristianesimo ed in genere di quella cultura superiore che ha obiettivato se stessa in un grande sistema di principi che noi riteniamo capaci di illuminare il mondo intero. La libertà, la fraternità, l'uguaglianza sono le parole che risuonano dentro il pantheon della civiltà. Chi non è d'accordo? Ma se poi per caso ci avviene di guardare o di ascoltare queste parole cristiane e di civiltà dal di fuori, dove l'uomo non ha realizzato questi valori che declamiamo, dove il fratello non ci sente, non ci vede fratelli, se potessimo prendere coscienza di questo entreremmo in una cattiva coscienza, che è la benedizione di Dio. Credo che per noi non ci sia altra salvezza che quella di avere una cattiva coscienza, nel senso tecnico della parola. La «falsa coscienza» è quella di chi è convinto di essere nella verità come genericamente coloro che sono parte integrante del cristianesimo e della civiltà. Avere la «cattiva coscienza» significa accorgersi di essere nell'errore per cui la coscienza è inquieta. Io credo che la prima benedizione di Dio per noi sia questa: contrarre un dubbio sistematico su tutte le parole che diciamo e ascoltiamo. Anche se dobbiamo continuare a dircele e ad ascoltarle, dobbiamo farlo a partire da una presa di distacco in modo che non ci sfugga la realtà delle cose che è ancora quella che Gesù, con tanta semplicità, ci ha raffigurato. Ci sono quelli che dicono no alle nostre grandi verità ma fanno di si ed essi sono prediletti A questo punto mi si affollano alla mente, non solo a livello di riferimenti di cultura storica ma anche a livello dell'attualità, innumerevoli casi in cui la prassi che Gesù raccomanda in questo brano è vissuto da molti che sono fuori dal nostro cerchio cristiano e civile. Prender coscienza di questo significa entrare nell'inquietudine che, se prosegue, rischia di. minare la stessa stabilità del mondo.[…] Ci chiamiamo civili, ma ci sono popoli umili che ci considerano barbari insopportabili. Hanno ragione, perché hanno dalla loro parte i fatti. Noi potremo comunicare sono annientando noi stessi. Fuori da ogni atteggiamento eroico questo vuol dire scendere umilmente agli inferi, cioè negando noi stessi, come se noi fossimo Gesù Cristo, il quale «por essendo di natura divina non considerò un tesoro geloso ». Io non considero un tesoro, da custodire con gelosia, la mia cultura, il mio essere di razza bianca, il mio essere in un paese civile, il mio essere cattolico. Io metto da parte tutto questo. Cosa mi resta? Mi resta quello che accomuna a me il povero accattone, il povero immigrato che non ha modo di parlarmi e che ha bisogno di tutto, che si sente braccato, il criminale messo in carcere secondo le leggi della cultura che io condivido. Io scendo alla radice. E un processo che ha tanti significati, anche a livello culturale serio e cosi dovremo fare da ora in poi. Non imporre la nostra civiltà di parola a chi arriva da noi, ma rimettere in questione questo tesoro, da non custodire con gelosia, per ascoltare la parola dell'altro. Che cosa hanno da raccontarci questi che arrivano? Poveretti, abituati per soggezione ad ascoltare solo noi Se li mettessimo in cattedra? Se li portassi qui e ci raccontassero quello che sono, quello che hanno visto, quello che pensano di noi? Sarebbe una cosa straordinaria e capiremmo che abbiamo detto di sì e fatto di no, abbiamo detto: «gli uomini sono tutti fratelli» e abbiamo fatto l'opposto. Lo capiremmo!

 

Ernesto Balducci – "Gli Ultimi Tempi" vol- anno A

 

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