10 Febbraio 2019 – V DOMENICA TEMPO ORDINARIO – Anno C

10 Febbraio 2019 – V DOMENICA TEMPO ORDINARIO – Anno C

10 Febbraio 2019 – V  DOMENICA TEMPO ORDINARIO – Anno C

 

Non dovremmo nominare il nome di Dio invano. Dovremmo far piazza pulita di una tradizione in cui il nome di Dio è servito anche ai tiranni e ai mercanti del tempio. Dobbiamo pulirci l’anima di Dio perché Egli sia una esperienza o non sia nient’altro.

 

PRIMA LETTURA: Is 6,1-2a.3-8- SALMO: 137 SECONDA LETTURA: 1Cor 15,1-11- VANGELO: Lc 5,1-11

 

Non si crede in Dio perché siamo andati a Lui, si crede in Dio perché è venuto a noi, perché ci si è fatto sentire, perché ci si è in qualche modo manifestato. Quando parlo di questa manifestazione alludo ad esperienze che possono anche diventaare sconvolgenti come quella di Paolo a Damasco, ma normalmente non turbano il tessuto della nostra psicologia. Se affermiamo che il Dio Santo è il senso della nostra esistenza, non lo diciamo per altro che per una esperienza interiore. Dio è una presenza che si fa sentire, e che si fa sentire nella profondità. Tutto il resto è accessorio. Il simbolismo con cui si esprime questa presenza non è più quello del Vecchio Testamento. I concetti di cui ci serviamo non sono più quelli della metafisica medievale, che sono poi stati sminuzzati nei catechismi della nostra infanzia. Il vero modo di esprimere la santità di Dio è nel ritorno ad un precetto del mondo ebraico: non si parla di Dio. Dio è una presenza o è una chiacchiera. O è una presenza che si trasmette, oppure è meglio tacere. Non dovremmo nominare il nome di Dio invano. Dovremmo far piazza pulita di una tradizione in cui il nome di Dio è servito anche ai tiranni e ai mercanti del tempio. Dobbiamo pulirci l’anima di Dio perché Egli sia una esperienza o non sia nient’altro. Di qui la grande salutare funzione pedagogica che ha avuto l’ateismo come distruzione di tutti i simulacri di Dio contro i quali il credente è altrettanto irremovibile che l’ateo. Perché niente offende di più il credente quanto un simulacro di Dio. La forza distruttiva ma salutare della fede, i profeti l’hanno insegnata. I profeti hanno vissuto di questa forza. E Gesù è stato condannato perché bestemmiava: a dirlo non era il portatore dell’opinione pubblica, ma il sinedrio nella sua ufficiale convocazione. Gesù fu condannato perché bestemmiava Dio. I primi cristiani furono perseguitati, come dice Giustino martire, perché atei, atei in rapporto al Dio vigente fra i filosofi o nel culto della città. E ogni qualvolta la fede ritorna ad essere esperienza di una forza innominabile ma anche profondamente omogenea alle attese radicali dell’essere umano, essa può anche manifestarsi come rifiuto, come contrapposizione alla religione costituita. Il primo tratto di una fede che voglia essere se stessa è dunque la docilità alla presenza di Dio. È Dio che si fa sentire all’uomo, che lo tocca con un tizzone ardente, sconvolge l’ordinamento di natura, che lo estrae dalla nostra esistenza finita e mortale come si estrae un aborto, un figlio che non vuol nascere. È la sua forza che ci chiama ad un’esistenza alla quale le nostre energie intrinseche non erano adeguate. Un altro tratto della fede è la presa di coscienza della nostra condizione di peccatori. Anche qui: come è giusto quanto ci ha detto una certa antropologia critica che il discorso cristiano sul peccato è alientante, è deteriore; che anzi la religione in tanto vive in quanto riesce a darci il senso della colpa per poi possedere la nostra anima avvilita. Anche questo però appartiene all’esperienza deteriore – culturalmente anche comprensibile – che non ha a che fare col senso di peccato che scaturisce nell’atto stesso dell’esperienza di fede. Nell’esperienza di fede noi non ci giudichiamo secondo i codici morali, che pure hanno la loro importanza. Di fronte a quei codici a volte ci riesce difficile dire (a qualcuno che si confessa) in che cosa siamo peccatori. In questa impotenza a decifrare, secondo il codice vigente, il nostro peccato noi pian piano cresciamo nella sicurezza farisaica di essere persone perbene. E non c’è di peggio. Nasce allora una specie di identificazione tra l’essere cristiani e l’esser persone perbene, un senso di distacco dagli altri: «grazie, o Padre, perché non sono come quegli altri». Gli «altri» sono, secondo i tempi, gli atei, i miscredenti, i nemici della Chiesa, i peccatori, ecc. Come ho detto prima riguardo al rapporto razionale con Dio, l’esperienza di fede brucia tutti i moralismi, li rende irrilevanti. Si può dimostrare l’esistenza di Dio, e si può dimostrare che Dio non esiste: le due posizioni sono razionalmente equivalenti. Ma il Dio che si dimostra non ha che fare con quello di cui sto parlando, perché a priori esso è un Dio che non si dimostra. O io lo percepisco come presenza, oppure lo costruisco, dimostrandolo, come un feticcio che dura quanto dura la cultura in cui sono rimasto inserito. Ebbene, questo è vero anche a livello morale. A livello morale chi ha fede sa di essere un peccatore. Che significhi questo non è dicibile secondo i concetti con cui si traduce la coscienza morale. Essere peccatori vuol dire sentirsi inseriti in una situazione difettiva, inadeguata, per cui ad esempio lo stesso parlare di Dio diventa impuro. Sento che le certezze che esprimo sono così lontane dal mio modo di vivere che me ne vergogno, per cui preferisco non dirle. Questo avvertimento della disparità profonda tra la santità di Dio e la nostra condizione umana è la cognizione del peccato, che è la cognizione di un modo di essere così comune che non mi verrà mai in mente di dirmi migliore di chi non va in Chiesa, di chi non crede.

 

Ernesto Balducci – da: “Il Vangelo della pace” vol- 3

                 

 

 

/ la_parola