13 Dicembre 2015 – 3^ DOMENICA DI AVVENTO – Anno C

13 Dicembre 2015 – 3^ DOMENICA DI AVVENTO – Anno C

13 Dicembre 2015 – 3^ DOMENICA DI AVVENTO – Anno C

 

Se io, liberandomi dalle anguste pareti della mia vita personale, guardo l’umanità intera che è il mio mondo, sento come le nostre gioie sono tutte sorrette da una illegittimità profonda.

 

PRIMA LETTURA: Sof 3,14-18a- SALMO: Is 12,2-6-SECONDA LETTURA: Fil 4,4-7- VANGELO: Lc 3,10-18

 

L’uomo virtuoso, per quanto cerchi di trovare in sé, come il filosofo dice, il compenso delle sue virtù, in realtà è circoscritto di tristezza. Le virtù si reggono, fatalmente – tale è la nostra condizione di fragilità psicologica e fisica –, su uno sforzo, su una contrazione, su una disciplina e quindi implicano l’abbandono della spontaneità. L’uomo virtuoso non può essere spontaneo. Anche se la sua virtù diventa una seconda natura trovate sempre nello sfondo delle sue virtù la durezza e spesso dobbiamo pregare Dio che ci scansi dai virtuosi. L’uomo spontaneo raramente è virtuoso. La spontaneità porta ad esprimere le spinte profonde della nostra natura fisica, che sono forze scomposte, e allora la spontaneità lascia amarezza, come se nel nostro intimo avessimo calpestato una immagine di noi stessi che ci è troppo cara. Viviamo in questa contraddizione. C’è un punto di superamento a cui aspiriamo ed è il punto misterioso attorno a cui ritroviamo – se fosse il caso potremmo anche dare indicazioni – le grandi esperienze dell’umanità di tutti i tempi. In questo momento penso a quella esperienza che quanto ad ascetica non ha niente di uguale nella storia del mondo: penso all’ascetica dell’Oriente, allo svuotamento interiore, alla eliminazione di ogni desiderio, alla riduzione della coscienza ad una pura cavità trasparente senza nulla dentro. Questa coscienza trascendentale è coscienza di nulla. È uno sforzo straordinario, compiuto nei millenni. Ma anche lì, ad un certo punto, il senso dell’inutilità di questa escavazione porta il bisogno di capovolgere le cose per cui il nulla si trasforma nell’incontro con l’Altro, con quello che un grande libro dell’Oriente chiama «il grande Giocatore», colui che gioca con l’universo e che ci chiama alla danza, per cui, all’improvviso, l’asceta è un danzatore: entra nella gioia. Sono bisogni così profondi che non possiamo tradurli in concetti plausibili, sono intuizioni dello spirito umano che lanciano lampeggiamenti nella nostra memoria. Ma io qui devo ricondurmi al discorso cristiano che però non può che ricalcare questa dualità: la lunga pedagogia della virtù, della severità della vita, del rispetto della legge (su cui non dobbiamo mai gettare il minimo discredito anche se diciamo che non è lì il senso della vita) e all’improvviso la scoperta del fuoco. Giovanni dice: «Verrà uno che vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco». Giovanni non ha il fuoco. Il suo battesimo è un battesimo di acqua ed è un battesimo di purificazione: l’acqua purifica. Ma noi non abbiamo bisogno di essere purificati, abbiamo bisogno del fuoco. Al di là di ogni romanticismo, che cosa è il fuoco? Il fuoco è l’improvviso aprirsi nella nostra profondità spirituale, ad una presenza, è il passaggio dall’Io solitario, che mette il piede trionfatore sul tumulto delle passioni, al Tu. Come mi pare di aver già meditato qui con voi, è Adamo che all’improvviso, in un universo ancora intatto, si sente solo ed è triste finché una compagna gli è data. In quel momento c’è l’esultanza, in quel momento gli occhi hanno la pupilla, le prospettive hanno un centro, ogni cosa è come dotata del senso di sé, della sua pienezza. È l’improvviso significato che trascende ogni concetto. Noi abbiamo bisogno di questo modo di vivere che è al di là della severa linea delle virtù e delle ascetiche. Il battesimo che Cristo porta è questo.[…] Vorrei chiudere dicendo che non dobbiamo mai limitarci a scandire in termini troppo soggettivi un annuncio messianico, perché allora dovrebbe tornarci subito la severa parola del Battista: «Chi ha due tuniche ne dia una a chi non ne ha; e chi ha da mangiare, faccia altrettanto». Se io, liberandomi dalle anguste pareti della mia vita personale, guardo l’umanità intera che è il mio mondo, sento come le nostre gioie sono tutte sorrette da una illegittimità profonda e che dobbiamo ricominciare da capo perché per entrare con verità nello spazio illuminato dal fuoco dobbiamo aver percorse le vie della giustizia. Quanti nel mondo aspettano che noi diamo una delle due tuniche! Sono miliardi. E aspettano che si dia da mangiare, noi che viviamo nell’abbondanza. È un ricordo che non è affatto convenzionale, è la severa misura in cui dobbiamo collocare le nostre esaltazioni interiori. Sono sempre più convinto che l’interiorità che si pasce di se stessa compie una legittimazione indebita della ingiustizia in cui tutti viviamo, perciò dobbiamo sempre congiungere in una oscillazione che è la nostra autenticità umana ma anche la nostra condanna, il rattristante pensiero di quanti attendono il dono della tunica, ed il bisogno di esultare, di vivere nella gioia, che è un bisogno legittimo. Dobbiamo correggere l’una esigenza con l’altra, in attesa che ci sia l’adempimento. Noi dovremo inserire nelle nostre meditazioni personali questa realtà perché non ci si dimentichi che il destino che ci viene dischiuso da Gesù Cristo non è tanto quello personale quanto quello dell’umanità intera: amare la salvezza dell’umanità è l’autentico modo di amare e cercare la propria.

 

Ernesto Balducci, da: “Il tempo di Dio” – anno C (1992)

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