22 Giugno 2025, 12° Domenica T.O.

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Prima Lettura Dal libro della genesi Gn 14. 18-20
Salmo 109
Seconda Lettura Dalla prima lettera di San Paolo ai Corinzi 1Cor 11, 23-26

Vangelo Dal Vangelo secondo Luca Lc 9, 11-17

Quando diciamo “il sacrificio della Messa” facciamo un indebito accoppiamento perché la messa è un sacrificio se non perché è un banchetto fraterno, legato alla memoria di un sacrificio, quello che Gesù liberamente ha compiuto con lo scopo di porvi fine, quasi espiando in se stesso il cumulo di perversità omicida che c’è nell’animo e inaugurando il tempo messianico della fraternità in cui non c’è bisogno del sangue degli animali, e tanto meno degli uomini.

Che poi questo rito fraterno senza spargimento di sangue si sia inserito nello schema quasi onnipotente dell’aggressività umana — abbiamo anche la Messa celebrata al campo, prima della battaglia! — questo è un altro discorso, che fa parte della indomabile dialettica tra questo messaggio fragile (incredibile perché troppo fragile!) e la legge che ci governa.

Del resto, anche nelle società secolarizzate del nostro tempo, l’istinto sacrificale esiste: noi abbiamo imparato nella scuola che una nazione è veramente unita quando ha un esercito. Un esercito è uno strumento sacrificale; un esercito presuppone un nemico. Il nemico c’è sempre. Non c’è nazione che non abbia il nemico da uccidere, idealmente. Nell’epoca dei missili i “santuari” sono le basi con i missili puntati verso il nemico. Senza la coscienza del nemico una nazione non si regge: sembra una legge invincibile.

Questo discorso ci introduce a intendere in un certo — che mi pare il più giusto, il più conforme all’intenzione originaria — ciò che ora abbiamo ascoltato. Un mitico re, Melchisedec, offre sul monte pane e vino, non animali. Abramo dovrà sacrificare al posto del figlio un ariete, un animale. Qui, invece, Melchisedec non sacrifica nulla: offre pane e vino che sono i frutti della cultura umana. Il pane e il vino, a differenza dell’animale, sono un prodotto essenziale della cultura dell’uomo, comportano — diciamo nel rito — la fatica e il lavoro dell’uomo. Il vino e il pane sono anche il simbolo dello scambio del banchetto fraterno.

Da dove è uscito Melchisedec? È come una interpolazione strana del racconto biblico, che invece, dal punto di vista culturale, risente normalmente della civiltà sacrificale di cui vi ho detto. Abramo riceve la benedizione di Melchisedec che non è un sacerdote di una religione, è il sacerdote dell’Altissimo, è il sacerdote cosmico, è il sacerdote dell’umanità che ha abolito i cruenti e compie il suo gesto di adorazione e di fraternità con Abramo, con l’offerta del pane e del vino.

Questo è — a mio giudizio — un punto fermo della memoria cristiana che si riallaccia e si confonde con la semplice memoria umana. Quando vogliamo ritornare (è un meccanismo che naturalmente deve fare i conti con la scienza ma al livello del linguaggio simbolico è sempre bello e importante) a un’età dell’oro, per dirci come vorremmo che fosse il mondo domani, noi dobbiamo ritornare non ad Abramo ma a Melchisedec, cioè a un tempo in cui l’umanità non versava il sangue ma manifestava la sua piena intima essenza e il suo modo più profondo di rapportarsi a Dio con l’offerta del pane e del vino, cioè col banchetto.

C’è un archetipo di fondo nella nostra storia, il banchetto fraterno, che è insieme il vero culto di Dio al di fuori degli schemi rituali e sacrificali e il vero culto dell’uomo per l’uomo, senza il «capro espiatorio», senza il meccanismo dell’aggressività. Simbolo fortissimo, anche perché noi sentiamo, per una necessità storica, il bisogno di rifarci a dei simboli che non appartengano a questa o a quella religione, a questa o a quella cultura ma abbiano su di sé la luce dell’universalità.

Siamo gli uni vicini agli altri. Non possiamo più combattere, anche per l’evidenza storica che ce lo impone, le altre religioni, ma dobbiamo risalire alle sorgenti che non sono Abramo e non sono Buddha, e non sono Melchisedec: sono l’uomo. L’uomo primordiale. Finché non risaliamo lungo il torrente che è il nostro fino alla vetta da cui i torrenti sono discesi, noi saremo sempre interni alla religione sacrificale.

Non ci dimentichiamo che i fedeli di Gesù Cristo andarono a scannare gli infedeli convinti di andare in Paradiso se morivano nella battaglia. La sopraffazione della cultura di guerra è stata spaventosa. Per liberarcene non bastano gli accomodamenti superficiali, c’è da fare — come la chiamavo — l’inversione di rotta.

Per una simile inversione questo archetipo è veramente essenziale. Dinanzi a quest’uomo mitico, all’Uomo, Abramo ha pagato la decima, come a dire si è riconosciuto inferiore! La religione ebraico-cristiana, e così ogni religione, deve riconoscersi inferiore all’uomo. Non è l’uomo che deve pagare la decima alla religione, è la religione che deve pagare la decima all’uomo. Cambiano le cose!

Se la religione è davvero secondo Dio io la capisco non da quanto sono affollati i templi, da quanti quattrini si fanno nei santuari, ma, all’inverso, da come questa religione serve l’uomo, i suoi bisogni fondamentali di fraternità e di pace, come serve a eliminare dall’uomo la spinta aggressiva verso il sangue.

Da “Il Vangelo della Pace” vol. 3, anno C

/ la_parola