23 Giugno 2013 – 12^ DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – Anno C

23 Giugno 2013 – 12^ DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – Anno C

Non è forse vero che quando voi riuscite a comprendere e ad accettare una diversità che vi si pone dinanzi, morite a voi stessi?

PRIMA LETTURA:   Zc 12, 10-11; 13.1- SALMO: 62- SECONDA LETTURA:  Gal 3, 26-29 VANGELO:  Lc 9, 18-24

…Ci sono delle diversità che sono gravide di aggressività, portando in sé un potenziale omicida. Questo è il male che è nel mondo, il peccato originale, detto in termini comprensivi, perché anche nella persona più rispettabile, nel galantuomo per eccellenza se voi toccate certi punti, se mettete in questione certi valori vedreste venir fuori l'aggressività inesorabile. Le nostre sicurezze sono più necessarie del pane che mangiamo. Questa ansia di un superamento della nostra ferocità quasi immanente è l'elemento divino che è in noi, è la tensione escatologica, che attraversa tutte le creature, verso un comune approdo quando finalmente queste schiavitù molteplici, su cui si regge il nostro ordine, saranno spezzate, quando la donna non sarà per niente inferiore all'uomo e quando non sarà lo schiavo che alimenta il profitto del padrone e quando non sarà l'uomo che dovrà vergognarsi del colore della propria pelle. Quando queste cose ci saranno, potremo parlare di Dio. Prima di allora, vorrei seguire il comando del Signore, non dobbiamo dirlo a nessuno. Non lo diciamo a nessuno perché anche quando io parlo di Cristo in un mondo che non lo conosce ne parlo come uno che lo possiede e perciò ne parlo abusivamente in quanto, in realtà, già il nominarlo può indicare un elemento di autodistinzione nei confronti degli altri che non lo possono nominare come lo nomino io. Questa strana consegna che Gesù ripetutamente dà ai suoi quando manifestano la fede è una consegna di discrezione. Dovremmo imparare a pronunciare bene il nome dell'uomo prima di pronunziare il nome di Dio. Come facciamo,noi che veniamo dal mondo cristiano, a pensare a Dio senza vergogna quando respingiamo chi ha il colore della pelle diverso? Quando siamo presi dalla paura dei gruppi che vengono da lontano e si insediano nei nostri spazi sacri? Quando siamo dominati da questa ferocia che è appena agli inizi? La tranquillità dell'ordine della civiltà di cui andiamo fieri era garantito dal fatto che gli intrusi eran tutti controllati. Saremo messi in questione e se non sapremo riconoscere il volto dell'uomo nell'uomo più lontano da noi come facciamo a parlare di Gesù Cristo? "Chi dite voi che io sia?" Noi ne parliamo come dei possessori per eredità, ma non è così. Coloro che sono lontani gli sono vicini. Riprendiamo allora l'ansia messianica verso l'adempimento. Questo che significa,per una disciplina di vita? Ecco cosa ha detto il Signore: "Chi mi vuol seguire deve prendere la sua croce". Per Gesù prendere la croce non vuol dire fare le mortificazioni. La croce è un emblema di supplizio pubblico, non uno strumento di tortura privata. La croce era il destino dei condannati politici. Gesù prese la croce, cioè assunse su di sé l'obbrobrio della condanna pubblica e andò avanti fino alla sua morte. Prendere la croce vuol dire accettare questo destino, farsene carico. Non vuol dire far penitenza, non mangiar carne il venerdì, fare i fioretti; vuol dire assumersi, quando fosse necessario, il peso di un'esclusione per amore dell'umanità liberata da tutte le divisioni. Questo è il segno, ovunque si accenda, anche in terre lontane, non cristiane -non ha importanza-, della tensione messianica il cui approdo è già prefigurato da Gesù Cristo. Così facendo, certo, uno perde la vita: "Chi non perde la proprie, vita non la salva". Perdere la vita vuol dire abbandonare tutte le nostre sicurezze, le nostre garanzie a cui siamo così attaccati,anche quando non sembra,e quindi vuol dire morire, e non necessariamente nel senso fisico ma in senso quotidiano. Non è forse vero che quando voi riuscite a comprendere e ad accettare una diversità che vi si pone dinanzi, morite a voi stessi? Accettare un diverso vuol dire morire, vuol dire rinunciare ad un lembo della nostra identità perché ciò che ci è estraneo ci rimette in questione. Non è la diversità integrativa, che è bella, è la diversità invece provocatoria, per cui quando la comprendiamo noi moriamo. Entrare in quella morte vuol dire salvarsi e salvare il mondo. Questa è la nostra via. Se noi invece vogliamo salvare la nostra vita (la nostra identità) la perdiamo. Questa è una grande verità che illumina tutte le pagine della storia umana, anche quella che stiamo vivendo. Vediamo come nelle capitali dell'Est -Mosca, Budapest,Varsavia- si cavano dai sepolcri i condannati di ieri per onorarli. E' il segno della tragica stoltezza. Ma andiamo al di là della pura determinazione politica, vediamo in questo un segno di una stoltezza che attraversa l'intera storia dell'uomo. Gesù sta come segno di questo aspetto dell'umanità misterioso e tragico e anche grande perché ci sono uomini che per questo amore della liberazione dei fratelli da tutte le schiavitù hanno perso la vita, sono morti come lebbrosi e non sempre hanno avuto i monumenti post-mortem, molti sono nell'oblio. Io penso a questo mistero dell'uomo che poi in qualche riflesso è un mistero che abita anche la nostra vita privata. Qui dobbiamo trarre la consolazione vera, la profonda consolazione che nessuno ci potrà strappare e in questo modo ci facciamo solidali con tutti i fratelli della terra che hanno la stessa aspirazione e nel segreto possiamo rispondere alla domanda di Gesù che è rimasta sospesa per aria due millenni e rimarrà fino alla fine dei secoli: "Chi dite voi che io sia?". Qualcosa sappiamo dire. E così la fede si rinnova lungo la stessa tribolazione del nostro vivere la nostra umanità insieme ai nostri fratelli.

 

Ernesto Balducci – da: Omelie sparse 1989

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