23 Ottobre 2016 – 30^ DOMENICA TEMPO ORDINARIO – Anno C

23 Ottobre 2016 – 30^ DOMENICA TEMPO ORDINARIO – Anno C

23 Ottobre 2016 – 30^ DOMENICA TEMPO ORDINARIO – Anno C

 

Tutte le differenze sono il prodotto del nostro peccato perché se scendiamo lungo i rami della diversificazione del genere umano arriviamo alla unica radice che è l’atto creativo di Dio. Noi, lungo i rami delle diversificazioni, abbiamo creato uomini di divisione e non di unione per cui anche il nome di Dio oggi è un nome che divide.

 

PRIMA LETTURA:  Sir 35, 15-17.20-22- SALMO: 33- SECONDA LETTURA:  2 Tm 4,6-8.16-18- VANGELO  Lc 18, 9-14
 

…Nessuna religione può dire di essere immune dal sangue. La storia delle religioni è anche storia di sangue, anzi spesso è la storia della sacralizzazione del versamento del sangue. Nessuno quindi può andare, come il fariseo, davanti a Dio, ma deve collocarsi umilmente come il pubblicano. Ogni uomo di fede religiosa deve trovare, nella memoria storica della propria religione, i riferimenti concreti che danno alla professione di pentimento un contenuto reale. Dobbiamo chiedere perdono a Dio delle crociate, dell’alleanza con i potenti, altrimenti la nostra preghiera non è pura. Noi non siamo nella condizione di quella povertà esistenziale che non solo è l’esterna povertà economica ma è una povertà interna, è una povertà essenziale, è un distacco interno da tutto ciò che ieri ci rendeva gloriosi, grandiosi, prestigiosi dinanzi al mondo. Questo distacco ognuno lo deve compiere. Entrare sulle soglie ultime della storia, se è vero che la prospettiva che abbiamo dinanzi non è quella di una crociata malaugurata ma è quella della catastrofe del mondo, significa, per forza di cose, avvertire che la storia delle separazioni delle religioni è finita. Quella storia è legata al particolarismo che ci ha partoriti e che ci ha abituati, in maniera quasi invincibile, a guardare gli altri con distacco e disprezzo: grazie, o Signore, perché non sono come i musulmani, come i buddhisti, come gli induisti e come gli idolatri. Questa fierezza cristiana è del tutto lontana dallo spirito di preghiera che ci viene indicato da Francesco d’Assisi che mandava i suoi frati fra i musulmani ricordando loro di trattarli come fratelli perché «sono i nostri primi amici». La possibilità che uomini che vengono da continenti spirituali segregati o contrapposti l’uno all’altro si ritrovino amici è un fatto importante, è l’indicazione del tempo nuovo verso cui siamo incamminati, dove nessuna differenza deve farci ombra, Tutte le differenze sono il prodotto del nostro peccato perché se scendiamo lungo i rami della diversificazione del genere umano arriviamo alla unica radice che è l’atto creativo di Dio. Noi, lungo i rami delle diversificazioni, abbiamo creato uomini di divisione e non di unione per cui anche il nome di Dio oggi è un nome che divide. (…) Questa divisione di Dio è l’espressione, proiettata nei cieli, della frantumazione dell’uomo. Dobbiamo allora domandarci perché l’uomo si è frantumato, quali sono le ragioni reali di questa frantumazione. Se il nome di Dio non lo possono dire insieme, quelli che pregano vuol dire che qualche cosa è avvenuto, che qualcosa c’è alla radice della nostra condizione umana. Se non mettiamo gli occhi alla radice, se non stiamo genuflessi su noi stessi per scoprire il nodo delle nostre responsabilità del mondo diviso, la nostra preghiera ci ricade addosso, non penetra le nubi ma alla prima nube piove su di noi come condanna. Questa è l’effettiva condizione in cui ci troviamo. Chi crede che la storia non è il puro prodotto della volontà singola umana, ma porta alla luce una specie di preordinata strategia che ci travalica e va verso il futuro, deve riconoscere che questo momento un cui il discorso sulla parola ha perduto di settorialità e diventa globale e totale, è il momento di grazia in cui dobbiamo lasciarci alle spalle il passato della divisione e dobbiamo unirci attorno agli appelli che emergono dall’uomo nella sua condizione di estrema debolezza. La preghiera che noi facciamo deve essere come il punto di confluenza degli appelli che salgono dal mondo e specie da coloro che sono nelle prigioni, nella segregazione, nell’oppressione. Noi preghiamo per delega, anche per quelli che si dicono atei, perché tutte le creature sono interne alla circonferenza della premura di Dio per l’unità e la pace del mondo. Dobbiamo farci carico della pace, dobbiamo fare della pace non solo l’invocazione d’occasione ma un progetto che sia abbattimento di tutte le barriere. Dobbiamo estirpare dall’intimo dell’anima il sentimento di cui in questo brano ha dato espressione il fariseo: «Grazie, o Dio, perché non sono come gli altri» perché questa è, secondo Gesù Cristo, proprio la cristallizzazione estrema, nella sua purezza chimica, del peccato. L’apertura agli altri è lo stato normale di uno che è conforme al Cristo. Gesù non ha fondato Il cristianesimo ma ha parlato per tutti gli uomini. C’è stato un momento in cui il termine cristiano ha cominciato ad essere termine di parte mentre la parola di Gesù è parola che unifica tutti i poveri, gli oppressi, i facitori di pace. La sua chiesa è una chiesa che va ritagliata non ai livelli delle basiliche, che Francesco non voleva, ma ai livelli della condizione del cuore umano. Ovunque è un pacifico ivi è la chiesa di Cristo, il suo popolo. Le nostre divisioni – quelle che si ritrovano nei manuali dove si fanno i calcoli tra cristiani, buddhisti, induisti, – sono divisioni interne alla nostra intelligenza di peccato. La divisione, tragicamente, veramente importante agli occhini Dio, è la divisione tra gli uomini di pace e gli uomini di guerra, cioè tra i miti e gli uomini della violenza, sotto qualsiasi forma.

 

 Ernesto Balducci – da: “Gli ultimi tempi” – vol. 3

 

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