24 Aprile 2016 – 5^ DOMENICA DI PASQUA-Anno C

24 Aprile 2016 – 5^ DOMENICA DI PASQUA-Anno C

24 Aprile 2016 – 5^ DOMENICA DI PASQUA-Anno C

 

Se noi vivessimo un amore che vale per tutti gli usi, non avemmo nessuna tribolazione, se non quella interiore di non trovare corrispondenza.

 

PRIMA LETTURA: At 14, 21b-27- SALMO: 144- SECONDA LETTURA: Ap 21, 1-5 – VANGELO: Gv 13, 31-33a. 34-35

 

…Volevo dire alcune cose che mi sembrano perfettamente pertinenti al tema che ho scelto. Le comunità di fede che Paolo istituisce e organizza, secondo una logica di carità e non certo secondo una logica autoritaria, sono il Corpo del Signore visibile nel mondo. È suggestivo il trapasso dalla passione del Signore a questo viaggio con nomi propri di persone e di luoghi geografici: la Croce si fa cronaca, il Vangelo diventa storia vissuta collocabile sulle cartine geografiche. È la logica dell’Incarnazione che entra dentro gli spessori e le articolazioni della vita sociale. E, per l’altro verso, è suggestivo rapportare queste piccole comunità sperdute alla città Santa, che scende dall’alto, in cui tutte le cose vecchie sono state abolite e l’amore trionfa. È vero sì che le nostre comunità non hanno niente dell’autenticità, della pazienza e dell’audace speranza delle prime comunità. Resta vero però che esse vivono tra due grandezze infinite: la grandezza infinita del Cristo, nella sua parola e nella sua testimonianza, e la grandezza infinita dell’ultimo evento. Come potevano le prime comunità, immerse in un mondo del tutto estraneo. portare avanti la certezza che a loro era affidato il destino del mondo intero? Lo potevano per la forza della fede. E noi chi siamo? Saremo sempre meno importanti come cristiani, nel gioco delle forze quantitative della storia. È quasi sicuro che così sarà. Il non essere importanti è il nostro statuto normale! Il nostro compito è la conservazione e la proclamazione del primato dell’amore, è di diventare manciata di lievito dentro la massa di farina, piccola luce accesa nell’immensa stanza buia. La nostra certezza di fede ci rende – come dice qui la scrittura – «capaci di sopportare molte difficoltà», Se noi vivessimo un amore che vale per tutti gli usi, non avemmo nessuna tribolazione, se non quella interiore di non trovare corrispondenza. Ma siccome il nostro amore è architettonico – come dicevo prima – è anche un amore conflittuale che denuncia, svela, smaschera e quindi si compromette nelle dinamiche della storia. Perciò è un amore che provoca tribolazioni. Chi ama così non avrà mai pace. Perché il suo obiettivo è questa città Santa dove tutte le cose passate sono finite, dove non c’è la morte (e noi abbiamo la morte sotto gli occhi tutti i giorni) dove non c’è il pianto e chi lo provoca. Ed è chiaro che non possiamo non essere in dissenso nei confronti della società esistente, perché essa non ha le misure della Città Santa. D’altra parte, se noi crediamo nel Cristo che viene dobbiamo credere in questa città che viene. E come viene? Viene nella misura in cui la morte è vinta, il pianto è asciugato, le vittime sono liberate… Viene nella misura in cui la liberazione dell’uomo procede. Ecco perché la fede immediatamente ci innesta nei conflitti storici facendoci scegliere la strada giusta, che va verso la misura ultima, quella della città Santa. Quando osservo le masse che tumultuano, i giovani che intristiscono delusi, che si abbandonano alla disperazione o alla violenza, o a una tragica estraneità al mondo in cui siamo, mi domando che cosa c’è dall’interno muove queste generazioni al dissenso nei confronti della nostra società. Possiamo giudicare queste cose con criteri economici e politici, ma perché noi non le giudichiamo anche con i criteri che la nostra fede rende limpidi ai nostri occhi? In fondo l’esigenza di una società tutta diversa che spesso rende così irrazionali, così irriducibili alla logica della pazienza è un tratto interno dell’uomo che a noi dovrebbe apparire molto normale. Come possiamo essere contenti? Come possiamo meravigliarci che ci siano gli scontenti? L’uomo ha in sé una misura tale per cui tutte le sistemazioni della storia appariranno prima o poi intollerabili. Benedetti coloro che sentono intollerabile la storia! È che noi ci troviamo spesso a fare da cariatidi alla città presente e a sconsacrare le attese di un’altra città. Ecco perché i nuovi portatori di inquietudini non ci guardano nemmeno in faccia. Noi parliamo di cose vecchie, non di cose nuove. Dovremmo sapore cogliere nella loro ansia un germe (che avrà bisogno poi di mediazioni storiche ma intanto è in sé degno di ogni rispetto) che ha un rapporto, consapevole o meno, con ciò che noi diciamo nelle nostre parole profetiche sulla città santa, sui nuovi cieli e sulla nostra terra. Solo se avessimo questa fede attiva potremmo collocarci dentro il cuore delle inquietudini del nostro tempo, non per invocare la polizia che metta tutto a posto, ma perché emerga, all’interno di ciò che è inquieto, la linea della novità, della diversità che dovrebbe esprimere la politica e la cultura. È questo il ruolo dei credenti come tali. Essi non hanno competenze politiche e culturali specifiche, hanno – se sono credenti – il discernimento delle inquietudini collettive. Ma non lo abbiamo. Di quale salvezza parliamo se poi, quando un gemito sale a noi e non sappiamo percepirlo, abituati come siamo ai vecchi sillabari e alle vecchie lingue? Solo se assumiamo il principio cristiano dell’amore nella ricchezza obiettiva e realistica con cui ci è stato proposto. possiamo rinnovare in noi la certezza che la Resurrezione del Cristo non è un mito fuori della storia è la permanente alternativa di novità inserita nel cuore della storia.

 

Ernesto Balducci – da “Il mandorlo e il fuoco” – vol 3 – anno C (1976-77)

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