3 Luglio 2016– 14^ DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – Anno C

3 Luglio 2016– 14^ DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – Anno C

  3 Luglio 2016– 14^ DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – Anno C

 

  Sono molte le tentazioni che offuscano la nostra vita ma ce n'è una – che credo non vi sia ignota – che è quella dello scoraggiamento, del sentimento dell'inutilità di ciò che facciamo. È proprio lì che la fede conta.

 

PRIMA LETTURA:  Is 66, 10-1- SALMO 65- SECONDA LETTURA:  Gal 6, 14-18- VANGELO:  Lc 10, 1-12. 17-20.

 

 

…Disse Gesù: tutto ciò che è male viene dal cuore, cioè da questo lato ombroso dell'uomo che è poi anche un portato della sua condizione evolutiva. Io penso che dovremmo riscoprire un modo di annunciare il Vangelo che elimini fin dal primo momento ogni intenzione di discriminazione. E difficile, perché tutto pesa su di noi: la tradizione, la mentalità di chi ci ascolta e che ci considera come gregari di una istituzione … Dobbiamo portare anche questo peso di una tradizione che non ci rende molto credibili quando annunciamo la pace, quando ci presentiamo senza sottintesi, senza l'intenzione di conquistar nessuno ma semplicemente come fautori di pace. Magari nell' attimo dell'incontro, vorremmo dare alla persona incontrata l'impressione che è possibile vivere di pura intesa, che il senso del vivere non è nell'utile che se ne trae ma semplicemente nel vivere, che esistere non è funzionale a qualcosa ma vale in sé. Poter scoprire questo è un fatto di grazia perché ci porta ad un certo livello della cognizione degli uomini e del mondo che non è quello consueto. La categoria dell'utile, dell' «a che serve» la introduciamo dovunque. Anzi, siamo così condizionati che – ad esempio – anche l'uso del tempo in noi è contaminato: il tempo che si perde è un male. Abbiamo perduto la capacità di perdere il tempo, cioè di passarlo in modo che non serva ad altro che a stare insieme, all'essere «con». È qui, se ci pensate bene, il segreto fascino della festa. La festa è il tempo passato che non serve a nulla, serve a stare insieme, all'essere insieme, a riconoscersi reciprocamente: a dare libero esito a quegli aspetti di noi che non sono mercificabili. Ma l'onnipotente spirito della mercificazione usa anche la festa a scopo di consumo per cui nemmeno quel tempo è immune dal peccato. Penso che il Signore quando mandò i suoi dicendo: «Portate l'annuncio della pace, il regno di Dio è vicino», voleva dire: «Il regno della pace è vicino, lo avete ad un capello da voi, se volete è lì, imminente». È la rivelazione di una possibilità in cui non crediamo. Anche quando diciamo di crederci rendiamo omaggio – e ci fa bene anche psicologicamente – ad una immagine di città pacifica che però non ci sarà. Crederci sul serio è un dono della grazia di Dio. Credere sul serio a questa pace vuol dire credere che il regno di Dio è possibile, che questa città pacifica, descritta con opulenza di immagini da Isaia, non è un sogno di un profeta ma è una possibilità a portata di mano. Allora, prima che tutto il resto, credere nel Vangelo vuoI dire credere a questa validità dell'annuncio di pace che va dato con fiducia a tutti. In qualunque casa entriate non domandate di che idea sono, se credono in Dio o non ci credono, se sono del vostro partito, ma dite «Pace a questa casa». Se c'è un figlio della pace rimanete, altrimenti la pace ritornerà a voi. Vorrei dire: la condanna c'è ma non è una condanna estrinseca, è già nell' essere senza pace. Questo modo pacifico di vivere il messaggio del Vangelo non ha confini, non ha discriminazioni perché ovunque c'è un figlio della pace. Chi li sa contare i figli della pace? Li abbiamo visti perfino in una piazza cinese! Chi l'avrebbe detto? Erano molto più pacifici ed evangelici di certi nostri apostoli troppo zelanti. Chi l'avrebbe detto? I figli della pace sono dovunque. «La messe è grande», ma dove sono gli operai? Quelli che sanno far fiorire, raccogliere questa messe che è l'aspirazione ad un nuovo modo di essere? Questo è il senso di sgomento che ci prende. Sono molte le tentazioni che offuscano la nostra vita ma ce n'è una – che credo non vi sia ignota – che è quella dello scoraggiamento, del sentimento dell'inutilità di ciò che facciamo. È proprio lì che la fede conta. È vero anche nello spazio di una famiglia, dove lo spirito di competizione penetra e spezza e divide e mortifica. Entrare con questo spirito della pace nelle società piccole o grandi e rimaner fedeli è un dono immenso di Dio ed è un diffondere nel mondo il Vangelo ma non nel senso proselitistico, propagandistico, perché solo Dio sa quando verranno i frutti. Non sono le nostre organizzazioni pastorali che servono se esse sono qualcosa di diverso da un coordinamento di questo spirito pacifico che dobbiamo diffondere dovunque ed i cui portatori sono poi dove meno li penseremmo. Ho voluto ridurre il messaggio di queste pagine a questa prospettiva perché sono convinto che è una risposta a tanti nostri problemi. Capisco che è una semplificazione che ha bisogno di approfondimento, di mediazione. Quando Gesù dice: «Andate senza denaro, senza bisaccia, senza sandali» allude ad un comportamento che è difficile capire cosa significhi in questo ventesimo secolo. Forse significa: non vi lasciate mai condizionare dai mezzi che avete in mano, non vi legate, non fate gruppo, non diventate gruppo di pressione, ma andate diritti alla coscienza di coloro che aspettano senza aumentare il vostro spirito di potere, senza diventare un gruppo potente. Forse questo vuol dire il Signore. Sento che è cosi perché se per caso un apostolo incontra un imperatore che lo chiama a casa sua e lo mostra al balcone a tutti gli uomini, il povero apostolo è finito, ha salutato uno che lo ha catturato, che lo ha inserito nel proprio gioco. Non mi dite che non succede, succede di continuo. Ecco perché alla fine il Vangelo si affida alle interpretazioni libere della coscienza che non possono tradursi in ricette meccaniche che ci farebbero cadere in un fondamentalismo funesto, in un pauperismo materiale che non significa nulla. È rimasta memorabile nella storia la figura di un cappuccino – padre Giuseppe – poverissimo che per amore del Vangelo scatenò la Guerra dei Trent'anni. Era povero ma fanatico. Non è la povertà che conta ma l'amore, è la liberazione del nostro spirito da ogni soggezione alla volontà di potenza e di dominio. E difficile. Ogni giorno si deve cominciare. Non ci scoraggiamo perché nella prospettiva del Vangelo non ha alcun senso la categoria del successo che per noi è cosi ossessiva. L'insuccesso è il nostro onore, è un tratto previsto da quel Gesù che ebbe un terribile insuccesso. Se vogliamo vincere con il successo siamo già entrati nella creatura vecchia. Al livello in cui sto parlando il successo non conta. Chi ha successo, forse, è diventato figlio di Satana. Chi è sconfitto, forse, è un figlio della pace. Queste variazioni su un tema cosi essenziale che ci tocca l'anima e che forse fa luce su tante cose del nostro tempo, sono destinate ad una quotidiana riflessione perché a ciascuno di noi poi tocca studiare i modi per tradurre questo spirito in gesti ed in azioni che siano conformi alle attese ed alla capacità dell'uomo del nostro tempo.

 

 

Ernesto Balducci – da: “Gli ultimi tempi” – Vol. 3

 

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