4 Settembre 2016 -XXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – Anno C

4 Settembre 2016 -XXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – Anno C

4 Settembre 2016 -XXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – Anno C

 

Scegliere vuol dire prendere posizione. Non tanto dare il patrimonio ai poveri, quanto combattere la propria battaglia perché cessino le condizioni per cui la ricchezza diventa iniqua, fonte di sofferenza per alcuni e fonte di inammissibili privilegi per altri.

 

PRIMA LETTURA: Sap 9, 13-18- SALMO: 89- SECONDA LETTURA: Fm 9b-10. 12-17- VANGELO: Lc 14, 25-33

 

…Il cristiano non è colui che vive in paradiso, è colui che vuole andare all’inferno se necessario pur di salvare gli altri, come disse S. Paolo. La fede cristiana non è sublimazione spirituale di egoismi latenti, è lo scoperchiamento di questi egoismi attraverso il taglio netto della spada: «Io sono venuto a portare la spada». Questa liberazione sapienziale ci pone necessariamente in una condizione di fragilità nei confronti di questo mondo. Gesù non si limita a parlare di questi vincoli, parla anche, in maniera radicale, dell’altro vincolo che oggi è diventato così dominante da attraversare tutti i meandri dell’esistenza e della psicologia: «Chiunque non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo». Non sono parole da riservare ai pauperismi o a quei piccoli gruppi che, nella scia di Francesco d’Assisi, danno tutto, in senso fisico. Questa sequela può assumere tutte le forme, ma vale per tutti, non solo per coloro che fanno il voto di povertà. Cosa vuol dire l’abbandono fisico dei beni che abbiamo? Vuol dire porre la propria anima al di sopra di tutti gli averi, vuol dire attraversare il sistema dei rapporti economici in cui siamo – più o meno e con diverse responsabilità – con un giudizio che è il giudizio dell’amore verso gli altri. Ciò che noi abbiamo, ciò di cui noi godiamo, è frutto di ingiustizia, non al livello delle norme private della morale, ma al livello dell’organizzazione collettiva della ricchezza. Scegliere vuol dire prendere posizione. Non tanto dare il patrimonio ai poveri, quanto combattere la propria battaglia perché cessino le condizioni per cui la ricchezza diventa iniqua, fonte di sofferenza per alcuni e fonte di inammissibili privilegi per altri. Non voglio trascurare la bella occasione di riflessione offerta dalla lettera di Paolo sullo schiavo fuggito da un padrone che era cristiano. Paolo lo rimanda, battezzato, al suo padrone perché lo riceva non più come schiavo, ma come fratello. Al di là di ogni atteggiamento apologetico che urta contro la verità storica, dobbiamo riconoscere che i cristiani non abolirono affatto la schiavitù. Essa è continuata fino al 1800. I paesi cristiani erano particolarmente specializzati nel mercato degli schiavi e la chiesa non ha pianto lacrime, né lanciato scomuniche. Questa è la verità vera che avrebbe bisogno di lunghe spiegazioni. Il credente non è specializzato nell’analizzare le condizioni della schiavitù dell’uomo sulla terra. Egli non è portatore di liberazione politica altrimenti – lo ripeto – i primi cristiani avrebbero dovuto fare una grande lotta politica che non hanno fatto. Capovolgendo però il discorso io vi dico che le nostre liberazioni, quelle che noi realizziamo al livello delle strutture, sono spesso delle finzioni formali. Io non oserei dire che oggi non ci sono più schiavi. Ci sono e ci sono nel sud e nel nord del pianeta. Ci sono nelle città evolute… Han cambiato forma giuridica, ma ci sono. Essere schiavi vuol dire vivere una vita dipendente totalmente dagli altri nell’assoluta impossibilità di poterla determinare da sé. Non ci scandalizzeremo per il fatto che esisteva la schiavitù giuridica, noi che siamo responsabili di schiavitù più profonde. Se voglio individuare, sulla linea di quello che ho detto, quale è il modo specifico con cui il cristiano come tale deve perseguire questo cambiamento del mondo, devo dire: quel che conta è proprio il mutamento interno delle coscienze. Siccome questo è un vecchio discorso ipocrita, spesso non si fa. Sono stati soprattutto gli ipocriti a dire che quel che conta è la rivoluzione delle coscienze. Ma è vero che se non mutano le coscienze, se la fraternità non diventa, al di là dei rapporti giuridici, un atteggiamento dell’essere, tutto il resto diventa una terribile menzogna. Mutiamo pure i rapporti di produzione, si rimane schiavi. Questa rivoluzione delle coscienze il Vangelo la avviata. Non si è realizzata che in parte. Sono sicuro che il Vangelo (lo disco spesso, non in senso consolatorio, ma lo spero proprio come contributo alla sapienza) fallirà sempre. Il che non mi autorizza ad adattarmi al fatto che fallisca. Non mi scandalizzo se il Vangelo fallisce perché la totalità di cui esso porta laluce tocca i lembi del regno di Dio e i miei occhi non vedranno sulla terra il regno di Dio. E nemmeno lo vedranno quelli delle generazioni future perché esso è un tesoro che viene sempre, ma mai nella sua totalità. Esso è il fine e la fine della storia.

 

Ernesto Balducci – da: “Il Vangelo della pace” – vol. 3

 

 

 

 

 

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