5 Dicembre 2021 – 2° DOMENICA DI AVVENTO

5 Dicembre 2021 – 2° DOMENICA DI AVVENTO

5 Dicembre 2021 – 2° DOMENICA DI AVVENTO

 

 

PRIMA LETTURA:  Bar 5,1-9      SALMO: 125     SECONDA LETTURA:  Fil 1,4-6,8-11

  VANGELO:  Lc 3,1-6
 

 

…La città è una città che crea valli, burroni, fossati, mura merlate, eserciti in difesa. La storia della città è una storia di divisioni, sempre. Ce ne dà conferma la ricostruzione antropologica di questo modulo della civiltà umana. La città è il trionfo della amicizia dell’uomo per l’uomo, dell’amicizia civica, ma è anche una storia di separazioni all’infinito. Tutte le nostre separazioni, quelle di cui andiamo spesso fieri come inizio di civiltà, sono il prodotto della città. Provatevi a pensare all’altra categoria, al deserto. Mettete nel deserto un barbone e il più ricco capitalista: sono uguali, non c’è differenza. Le differenze sono nella città. E’ molto utile far agire fra di loro questi due moduli: la città e il deserto, la dove parte il discorso: “Voce di colui che grida nel deserto” Sappiamo d’altronde che il deserto, più che un luogo geografico, è una categoria antropologica permanente del discorso profetico perché il deserto indica il ricominciamento da capo, il riprender le misure a partire da zero. Il deserto è zero; le differenze, che sono “la civiltà”, nel deserto si annullano. Se noi facciamo il discorso di fede all’interno delle differenze cominceremo a dire che c’è una teologia sulla donna e sull’uomo e sul prete, e … Le differenze le assumiamo come se avessero significato, ma non lo hanno, perché il vero modo di guardarle è di partir da zero per capire come esse sono nate, qual è la ragione di fondo che le ha partorite. La prima maniera è di far la ricognizione delle divisioni, si tratti di burroni o di montagne, che caratterizzano ancora la nostra città, cioè la nostra civiltà (le due parole, città e civiltà, hanno la stessa radice). Più ci si addentra in questa realtà, che nei nostri anni ingenui eravamo soliti guardare con ammirazione ed enfasi. più ci accorgiamo di quante iniquità è costruita. La divisione fra il maschio e la femmina, l’ostilità dell’uomo per la natura che egli sfrutta, la divisione fra il datore di lavoro e il lavoratore che gli vende la forza lavoro… sono tutte parto di una civiltà il cui spirito di fondo è la volontà del dominio, è, per riprendere il discorso che incontreremo nella liturgia di queste domeniche, il voler essere come Dio: “Se mangerete il frutto sarete come Dio”. Abbiamo mangiato il frutto e nella città ognuno è Dio dell’altro; il maschio della femmina, il ricco del povero, il potente dell’inerme e del diseredato, il bianco del nero… Una legge iniqua tutto attraversa per assoggettare l’uomo all’uomo. Questa è la città nel suo splendore. Qual è l’occhio del profeta? Quando è che il nostro occhio è profetico? Quando ci mettiamo nel deserto. La deformazione del Vangelo comincia quando si fa il discorso a partire dalla città e non dal deserto. Cosi facendo si hanno le città sante, la città del Vaticano, la città santa di Gerusalemme: tutti luoghi in cui si ratifica l’ingiustizia. Non ci sono città sante: santo è il deserto da cui si guarda la città e non per giustificarla o per esaltarla ma per giudicarla nell’intimo e poi modificarla perché essa non sia, come è, fonte e giustificazione di divisioni fra gli uomini. La profezia di liberazione è una profezia che ci riconduce alle radici del nostro esistere collettivo e non per esortarci – ecco il secondo passaggio – a trovar salvezza fuori della città, come voleva fare Giona, ma per entrare dentro la città. Questo è un altro aspetto, non cosi scontato, della fede cristiana. Appena la fede si adagia nell’impulso religioso, istintivo nell’uomo, il suo suggerimento è di andare sui monti, di tirarsi fuori e invece in quel momento si tradisce l’ispirazione della fede perché essa ci deve portare dentro, e non a cercare comode comunità collocate sulle colline da cui si guardi, di tanto in tanto, con occhio benevolo la sofferenza comune di colori che sono dentro la città. Ci deve portare dentro le contraddizioni. Questo è un punto essenziale della fede. La fede non giustifica le fughe ma anzi le dissuade, le delegittima e ci obbliga a farci carico delle contraddizioni del mondo. Se io con questi criteri voglio far nascere l’amore “in conoscenza e in discernimento”, non farne un motivo di autoesaltazione e di compiacimento nel giro degli amici che, immuni dai peccati, vivono con me, io so qual è lo spazio della salvezza. Allora il fasto delle antiche profezia si scioglie e rimane in me, come un residuo vivo, l’impegno etico alla salvezza dell’uomo da tutte le contraddizioni che lo affliggono. Con questo spirito la nostra milizia del mondo si illumina della grande speranza – ecco quale è il dono della fede – che questo impegno non sarà deluso. Una volta che in questo impegno si bruciano le nostre ambizioni personali, si subordinano a questo impegno tutti i calcoli personali, esso diventa fecondo. Certo, per lo più i profeti muoiono prima che venga l’alba del giorno di cui hanno parlato, ma quante volte un riverbero di quell’alba ci viene negli occhi! Dobbiamo essere grati a Dio che questo avvenga perché è vero: il nostro tempo è un tempo di iniquità – come spesso, forse per stanchezza di invenzione linguistica, diciamo – ma ci sono anche i segni che ci entusiasmano, ci sono le esperienze anche minuscole che ci fanno presentire il futuro, ci sono la stretta di mano con il giovane del Camerun o del Senegal che parlano con confidenza della fraternità che si aspettano da noi e hanno il desiderio di vivere secondo giustizia e fraternità. Allora dentro di noi si illumina qualcosa. Se poi viviamo murati nelle mura a cui sono deputate sentinelle armate, e poi abbiamo le nostre casseforti con doppia chiave, se ci asserragliamo nella sicurezza, la paura sarà il nostro pane quotidiano, non avremo nessuna gioia se non quella superficiale della soddisfazione degli istinti. Ma quando ci ripieghiamo dentro di noi non abbiamo che paura. Solo chi sceglie la linea dell’impegno illuminato dalla speranza avrà tribolazioni ma avrà la grande gioia interiore, il senso profondo che la vita non è spesa invano e che ogni attimo passato, ogni gesto compiuto si depositano in un corso segreto delle cose che prima o poi arriverà alla superficie della terra e diventerà primavera.

 

Ernesto Balducci – da: Omelie inedite – Anno C

 

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