La Via della Seta e il land grabbing – Aldo Ceccoli

La Via della Seta e il land grabbing – Aldo Ceccoli

La società dell’odio

(Armi, fame, migrazioni e delitti contro l’umanità)

 

Nell’intervento introduttivo al convegno di Firenze del 13-14 febbraio 1983, Ernesto Balducci rilevò la necessità di privilegiare l’esercizio quotidiano della ragione per costruire una possibilità concreta di salvezza dalla guerra: la lotta per la pace implicava necessariamente il disarmo e quindi la fine del sistema di sfruttamento di cui è espressione la corsa al riarmo[1].

Tuttavia con il crollo del Muro di Berlino (1989) e la dissoluzione dell’Urss (1991) termina il periodo dell’ideazione, progettazione e avvio del processo di globalizzazione e inizia il decennio della sua apoteosi, con i bombardieri che riprendono a volare.

Ad Auguste Comte, in pieno Ottocento, la guerra appariva come un residuo del passato, destinato a sparire con l’affermarsi della società degli scienziati e degli industriali. Per il profeta del positivismo, lo sviluppo della società industriale rendeva la guerra un inutile sperpero, in quanto il saldo fra i danni e i vantaggi ottenuti era inevitabilmente negativo, anche in caso di vittoria. Un analogo ottimismo lo troviamo in Normann Angell, che nel 1910 pubblicava “La grande illusione” nel quale si argomentava l’incompatibilità della guerra con un’economia improntata al libero mercato. Anche per Joseph A. Schumpeter l’attitudine bellicosa degli stati sarebbe un retaggio dello stato autocratico e delle mentalità feudali, necessariamente destinato a scomparire in forza della piena affermazione dei meccanismi dell’economia di mercato. Le vicende storiche si sono incaricate di smentire clamorosamente questa visione ottimistica, come anche l’opzione teorica della neutralità politica dell’economia, poiché la relazione fra guerra e interessi economici è nuovamente esplosa proprio nell’era della globalizzazione liberista, confutando così la tesi delle virtù del mercato che porterebbero la civiltà tra i popoli guerrieri.

Se negli anni Ottanta si viveva in un mondo diviso dallo scontro egemonico fra due grandi potenze, lacerato da tensioni di ogni genere, afflitto dalla fame, esposto al pericolo di una distruzione delle risorse ambientali e a quello di un possibile olocausto nucleare, oggi, dopo 40 anni di dominio del liberismo la situazione non è sostanzialmente cambiata. Ritenere che libertà, uguaglianza e fraternità siano soltanto delle espressioni retoriche prive di reale significato o, ancor peggio, delle formule ingannatrici, dei simulacri – che non servirebbero ad altro se non a giustificare il modo d’essere e la ragion di stato di sistema sociale che non deve essere modificato – ha alla fine portato al ritorno del razzismo, della xenofobia, della violenza, del sessismo, dell’omofobia, al fascismo postfordista e della guerra diffusa, guerra condotta contro la democrazia, il lavoro e contro i poveri non contro la povertà.

In un articolo pubblicato sul quotidiano “Il Giorno” del 24 dicembre 1972 dedicato al Natale consumistico, Balducci sottolineava come poiché “oggi è la religione del profitto che assume e utilizza ai propri scopi i simboli del mistero cristiano”, allora non resta ai credenti che una sola via: “recuperare nella sua radicalità l’evento” di quel neonato deposto fuori dalla città perché non c’era posto nell’albergo. Analogamente oggi “fuori” sono i migranti /le migranti.

Se il ventunesimo secolo vuole essere il secolo dei diritti umani, allora è assolutamente prioritario praticare quotidianamente l’impegno per l’eguaglianza in tutto il pianeta. Le diversità etniche e di cultura sono state trattate troppo a lungo come una minaccia piuttosto che una ricchezza. E troppo a lungo si è risposto a questa minaccia con il disprezzo, l’odio e i conflitti di tipo razziale e con l’esclusione, la discriminazione e l’intolleranza. Molte parti del mondo hanno visto aumentare le migrazioni e il traffico di persone all’interno di paesi e regioni e tra di essi. Questo ha messo in discussione i diritti umani e comunque molte di queste persone affrontano discriminazioni sistematiche o sono vittime delle reti transazionali del crimine organizzato. Particolarmente preoccupanti sono la paura e l’avversione verso gli stranieri che si riflette nei settori sia pubblico che privato, e il fatto che i migranti soggetti al traffico siano trattati come criminali per la loro condizione di residenza irregolare.

Per quanto riguarda le vittime del traffico i problemi sono ancora più ingigantiti. Ogni hanno migliaia di uomini, donne e bambini vengono venduti, spinti o obbligati a situazioni di sfruttamento alle quali non possono sottrarsi. Lo sviluppo del traffico illegale su larga scala di donne e bambine  a fini di prostituzione necessita di essere combattuto con tutti i mezzi disponibili.

            Il punto di partenza per affrontare la questione della discriminazione razziale nei confronti dei migranti – legali o illegali che siano – è affermare che essi hanno gli stessi diritti umani di qualunque altra persona, compreso il diritto alla vita, alla dignità e alla sicurezza, il diritto a condizioni di lavoro giuste, alla salute e a un trattamento equo davanti alla legge..

            Dobbiamo quindi porci alcune domande fondamentali:

  1. Come può ciascun paese del mondo riformulare la propria visione dell’identità nazionale in modo da abbracciare e comprendere tutte le componenti o i gruppi della popolazione, e offrire a tutt* una possibilità nel futuro del proprio Paese?
  2. Come possiamo radicare in ogni essere umano il sentimento di appartenere al genere umano cosicché nessuno/a si senta escluso?
  3. Come possiamo eliminare alla radice le cause del pregiudizio e della discriminazione?
  4. Come possiamo usare le opportunità fornite dai moderni mezzi di comunicazione e informazione per diffondere i messaggi dell’unicità del genere umano, del rispetto e della tolleranza?

Queste sono alcune questioni ormai vitali per tutti i paesi. E soprattutto un mondo che persiste nel discriminare, nell’offendere, nell’espellere è agli antipodi del concetto di uomo planetario di Balducci.

            Stephen K. Bannon- che vorrebbe ridurre l’Europa a un insieme di stati nazionali in guerra tra loro, distruggendo la moneta unica e le Nazioni unite – è diventato l’ispiratore dei movimenti nazionalisti in Europa, Salvini compreso, con cui condivide il razzismo, la caccia all’immigrato, ma soprattutto l’abilità di strumentalizzare quella parte della società più debole, facendogli credere di essere a suo fianco mentre elabora alleanze con i grandi capitali che continuano a schiacciarli. Per questo è fondamentale comprendere cosa sta succedendo. Come le idee di intolleranza e razzismo diventano pensiero condiviso; cosa sono quelle idee, da dove nascono, in che modo diventano pensiero condiviso e linguaggio che affranca violenza e intolleranza. Questo a mio parere dovrebbe essere l’impegno di lungo periodo della Fondazione Balducci dando vita ad una serie di iniziative sui temi sommariamente indicati. Chi vuole cambiare questa società non può limitarsi a fare politica in Parlamento o nei comizi, come diceva Lelio Basso, deve cercare invece di influire sulle mentalità. Da qui l’utilità di svolgere un lavoro coerente di studio, di riflessione, ricerca, al di fuori della banalità dei luoghi comuni quotidianamente riproposti, nella consapevolezza che la cultura e la teoria stanno sempre dietro ad ogni atto di politica, di partito o di movimento: elaborare una buona cultura è il fondamento della buona politica.

 

La via della Seta e l’acquisto di terre

            I migranti diventano il capro espiatorio degli italiani passati  dall’assalto al cielo alla difesa delle trincee sul Piave (per parafrasare la formula del Rapporto Censis del 2018). Non passa giorno che vi sia in qualche parte del mondo una violazione dei diritti umani, che si continui a morire nel Mediterraneo e che si sia bombardati dal linguaggio dell’odio mentre scarsissima attenzione viene rivolta a due fenomeni che        mostrano ancora una volta come iniziative economiche che hanno come teatro il mondo, siano simultaneamente azioni politiche, nel senso che ridefiniscono rapporti tra Stati, tra popoli e determinano profonde ricadute sul lavoro, sui modi di produzione, sui diritti.

L’idea  della Nuova via della Seta[2]  – di fatto la nuova idea di globalizzazione in versione cinese –  è stata lanciata nel 2013 (infrastrutture, oleodotti, metanodotti, (pipeline), porti, ferrovie, ponti) ed è incentrata sull’automazione. Molti paesi in via di sviluppo desiderano impegnarsi nell’iniziativa, con la speranza che la Nuova via della Seta possa aiutarli a finanziare infrastrutture necessarie per attirare investimenti diretti esteri e sviluppare la loro capacità produttiva.

Quando la produzione manifatturiera si spostò dal Giappone alla Corea del Sud, a Taiwan, Singapore, Hong Kong e infine in Cina continentale, i salari furono il fattore chiave. Oggi però, pur essendo ancora importanti, i salari non lo sono nell’ubicazione della produzione. Secondo alcuni analisti la produzione sta diventando meno dipendente dalla manodopera a basso costo, dato che il progresso delle tecnologie di automazione e intelligenza artificiale sta rivoluzionando la produzione. Recentemente Adidas ha deciso di produrre in Germania per la prima volta dopo venti anni, poiché il paese offre fabbriche automatizzate ad alta efficienza. Foxconn ha reso superflui 60.000 persone nella sua fabbrica di Zhengzhou e le ha sostituite con processi automatizzati. La ricerca di McKinsey mostra che l’87% delle attività produttive in Cina sono automatizzabili. Naturalmente la possibilità di automatizzazione è diversa nei vari settori, ma da un punto di vista generale tutto ciò sta dimostrando che la produzione sta diventando meno dipendente dal lavoro a basso costo.

            Con i progressi dell’automazione gli investitori stranieri hanno meno incentivi a spostare la propria produzione all’estero. Qui sta forse il rischio per la Nuova via della Seta: in pratica se gli investitori stranieri delle aree di produzione scelgono di non continuare a spostare la produzione o le spostano in misura molto minore rispetto al passato, è improbabile che il progetto della Via della Seta possa stimolare lo sviluppo di una produzione orientata all’esportazione. Questi elementi si vanno ad aggiungere alle preoccupazioni sul debito che creerebbero i prestiti cinesi con il rischio di portare a livelli di indebitamento tali che per molti paesi farebbero fatica a pagare. Dunque l’automazione cinese potrebbe finire per sfavorire uno degli asset del progetto, ovvero aprire nuovi mercati e dirigere le aziende straniere e cinesi che operano in Cina a produrre anche all’estero, per fare sì che le infrastrutture non siano viste come armi del debito in mano a Pechino[3].

            Accanto a questo abbiamo un neo-colonialismo che si esplica nel grande business della corsa alle terre. La pratica ha avuto uno spettacolare sviluppo a partire dal 2008, in concomitanza con la crisi alimentare mondiale, quando i valori del grano, del riso, del mais e di altri beni di prima necessità sono schizzati alle stelle, provocando tumulti e morti in mezzo mondo. Così molti governanti hanno cominciato a interrogarsi sul futuro e su come assicurare la sovranità alimentare ai propri cittadini nonostante le proibitive condizioni del proprio territorio. La soluzione intrapresa è stata quella di rovesciare il problema: invece di far crescere il riso nel deserto, si è scelto di favorire l’acquisizione di terre fertili altrove. Si è cioè esternalizzata la produzione di alimenti in altri paesi, mantenendo però il controllo di tutta la catena produttiva, dalla semina al raccolto. I paesi presi di mira erano soprattutto africani. Da allora, sono stati stretti accordi in mezzo mondo, in cui porzioni più o meno vaste venivano cedute a gruppi stranieri in cambio di canoni di affitto molto contenuti. Ad esempio in Etiopia, paese leader nel 2010 nella cessione delle terre, il prezzo variava dai 6 ai 25 euro. Inoltre questi contratti sono stretti direttamente dai governi e dalle ditte interessate, senza alcuna discussione pubblica e spesso in segreto, provocando – secondo alcuni studi – migliaia di contadini allontanati dalle terre che i governi hanno dato in affitto a gruppi stranieri.

            A questo proposito il rapporto 2010 della Banca mondiale – istituzione che aveva appoggiato questo tipo di pratica – afferma che prima della fine del 2009 sono stati annunciati accordi di affitto di terre per 45 milioni di ettari. Più del 70% di questi accordi sono stati fatti in Africa, in paesi come l’Etiopia,il Mozambico, il Sudan. Come corollario di questa enorme ondata di accordi agricoli è che hanno cominciato ad interessare anche il settore finanziario. Molti fondi di investimento, compresi quelli ad alto rischio come gli hedge fund, si sono gettati sulla terra come bene rifugio, provocando nuova speculazione  e l’aumento dei valori dei beni alimentari.

Allora di fronte ai problemi che questo nuovo tornante della nostra storia pone, quale significato assume il termine “sovranità”? e soprattutto chi è il “sovrano”? (“democrazia – ricordava Ingrao è prima di tutto decidere chi è il sovrano, e come e perché).

Dunque siano davanti a iniziative economiche che si muovono a livello planetario senza che vi sia un’idea dinamica della democrazia, dell’uguaglianza, della giustizia economica e sociale a scala del pianeta. Affinché l’idea dell’uomo e della donna  planetari non si trasformi in un’idea astratta o peggio a frase scontata, occorre indagare come si possa progressivamente inverare una politica nuova che assuma come centrale l’idea di porre fine al dolore che produce e ai fili spinati che imprigionano l’umanità intera.

 

 

 

 


[1][1] In particolare era all’ordine del giorno l’installazione dei missili a Comiso.

[2] Simone Pieranni potrebbe essere una persona da invitare poiché ha pubblicato su Il manifesto diversi articoli al riguardo: 11.12.2018; 15.2.2019; 27.2.2019.

 

[3] Il lancio della nuova via della seta cinese crea- tra l’altro – la necessità di proteggere infrastrutture e personale cinese all’estero, il che comporta la creazione di società di sicurezza private.

 

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