Tomas Halik: fondamentalismo e nazionalismo minacciano il cristianesimo
L’accompagnamento spirituale, il ruolo dei cappellani, l’ascolto di chi non si riconosce né in una fede istituzionale né nell’ateismo: il futuro della Chiesa nell’analisi del filosofo e teologo ceco intervenuto alla Pontificia Università Gregoriana
17 Giugno 2022
Tomas Halik
ROMA. Oggi il sogno di un’Europa unita che respira con entrambi i polmoni, come scriveva Giovanni Paolo II, l’Oriente e l’Occidente, «è minacciato dai pericolosi tumori del nazionalismo, del populismo e del fondamentalismo in entrambi i polmoni». Filosofo e teologo ceco, uomo che ha sfidato il totalitarismo senza rimanere intrappolato nelle recriminazioni, monsignor Tomas Halik ritiene che la priorità per il cristianesimo odierno sia sottrarsi a strumentalizzazioni politiche e identitarismi confessionali e reinventarsi come fonte di accompagnamento spirituale per donne e uomini in ricerca.
Nato a Praga nel 1948, Halik si è laureato in Sociologia, Filosofia e Psicologia nella sua città negli anni Sessanta, è stato ordinato sacerdote clandestinamente in Germania dell’Est nel 1978, ha collaborato con il cardinale Frantisek Tomasek all’epoca della «Chiesa del silenzio» cecoslovacca e, dopo la caduta del muro di Berlino, con l’allora presidente della Repubblica ceca Vaclav Havel. Solo dopo il 1989 ha potuto insegnare all’università nel suo paese. Attualmente insegna Sociologia nella facoltà di Filosofia dell’Università di Carlo a Praga, è rettore della chiesa del Santissimo Salvatore per la pastorale con gli studenti universitari e presidente dell’Accademia Cristiana Ceca. Ha ricevuto il premio Templeton nel 2014 e un dottorato honoris causa dall’Università di Oxford. Recentemente è stato ospite della Pontificia Università Gregoriana per un convegno internazionale e interdisciplinare organizzato dall’Istituto di Psicologia per celebrare il 50esimo anniversario di fondazione. L’occasione per riflettere, tra l’altro, sulle prospettive della formazione sacerdotale.
«Io vedo molto promettente per il futuro l’accompagnamento spirituale», spiega Tomas Halik a margine del convegno dell’ateneo romano dei gesuiti. «Penso che si debba differenziare tra i diversi tipi di ruolo del sacerdote: c’è il parroco, c’è il missionario, e penso che ci sia una terza via che io considero molto promettente per il futuro, l’accompagnamento spirituale. Tra le persone della nostra società ci sono molti che non si identificano con le Chiese, che si definiscono persone non religiose ma spirituali, persone in ricerca. Diminuisce il numero di persone pienamente identificate con le religioni istituzionalizzate, diminuisce anche il numero di atei convinti, mentre c’è un gran numero di persone che nel loro cuore e nella loro mente sono a metà, con una mescolanza di credenza e non credenza, di fede e di dubbio, e io penso che dobbiamo comunicare con queste persone, non nel modo del missionario tradizionale, non spingendoli nelle esistenti strutture istituzionali, ma aprendo queste strutture. Dobbiamo conversare con queste persone, camminare con loro, nel rispetto: possiamo imparare qualcosa dal tesoro delle nostre tradizioni e spiritualità, ma possiamo anche imparare qualcosa da loro. A mio avviso un ruolo importante, da questo punto di vista, possono svolgerlo i cappellani, i cappellani negli ospedali, nelle carceri, nell’esercito, nelle università: i cappellani sono lì per tutti, non solo per i devoti. Possono ascoltare, discutere, scoprire. In molti dei nostri paesi i confessionali sono vuoti, la gente non si riconosce nel classico specchio del confessionale, e c’è anche il dubbio su cosa sia davvero il peccato, quale la propria responsabilità, quanto si è determinati dalla propria cultura o quanto si ha la propria responsabilità delle proprie azioni… Tante questioni delle quali le persone devono poter parlare e discutere, e penso che per questo l’accompagnamento spirituale sia molto importante. Io, ad esempio, sono prete da più di 43 anni, ho ascoltato migliaia di confessioni, ma negli ultimi anni offro sempre la possibilità di un semplice accompagnamento spirituale: e le persone vengono. Ho allargato il gruppo di collaboratori anche a laici, a sorelle, con esperienze nella psicoterapia e nel counseling, collaboratori che possono accompagnare le persone. Penso che sarebbe un servizio molto importante per la Chiesa nel futuro. E sarebbe anche importante creare centri per questo accompagnamento. La gente dice che la Repubblica ceca è il paese più ateo del mondo, ma nella mia parrocchia a Praga battezzo ogni anno più di tremila adulti, e ogni anno aumentano. Dunque è possibile anche nel mondo secolarizzato. Ma, appunto, dobbiamo offrire non solo liturgia, predicazione, ma anche ascoltare le persone, dare loro la possibilità di trovare centri per la vita spirituale. La gente viene per ritiri spirituali che sono a volte anche molto creativi: ad esempio una settimana di silenzio, con la possibilità di guardare due film al giorno, e poi passare del tempo meditando, contemplando il senso del film, come esso incide sulla propria interiorità. La gente viene molto volentieri per rinfrescare la propria vita spirituale, anche in un tempo di crisi. Questa secondo me può essere la strada per il futuro».
E cosa pensa dell’identitarismo, una tendenza che rischia di ridurre il cristianesimo ad una bandiera da sventolare ma che nei nostri tempi si diffonde e non può essere ignorata dai pastori? Cosa dire a chi nel cristianesimo, nella liturgia, nella dottrina cerca un rifugio, una identità forte?
«È vero, c’è un bisogno di identità, e può avere diversi motivi. Un motivo a mio avviso è la crisi della famiglia: la famiglia dovrebbe essere l’ambiente naturale che coltiva l’identità del bambino, ma quando la famiglia è in crisi, ci sono divorzi, o i genitori sono assenti e mettono i figli davanti alla televisione, crescono persone che non hanno un’identità personale e cercano allora un’identità collettiva. E possono trovarla nel radicalismo politico, di destra o di sinistra, così come in qualche fondamentalismo religioso: il profilo psicologico di questi gruppi è molto simile! È un fenomeno molto pericoloso perché con una prospettiva che vede tutto in bianco o nero non si può capire il mondo reale. Queste persone finiscono con avere paura di un mondo colorato, di un mondo che cambia, e specialmente in questo frangente di grandi cambiamenti cercano qualcosa di forte. Ma dare loro la fede come forma di ideologia significa dare loro pietre, non pane. Lo psicologo americano Gordon Allport già negli anni Cinquanta ha sottolineato la diversità tra religiosità intrinseca e religiosità estrinseca: intrinseca quando la fede stessa è il motivo, estrinseca quando la religiosità è strumento per qualcos’altro, ad esempio una posizione nella società, una difesa forte dal mondo. Questa religiosità estrinseca è connessa con l’atteggiamento rigido, con l’autoritarismo, con la mentalità chiusa. Non è sano, è tipico di persone che si sentono perse, in pericolo, spaventate nel mondo. Questo fondamentalismo è come una malattia infantile».
Lei viene da un paese dove il cristianesimo è stato perseguitato, ha una esperienza personale in tal senso: ha sperimentato personalmente la tentazione dell’identitarismo?
«Ricordo che quando mi convertii, negli anni Sessanta, ebbi la possibilità di viaggiare in Occidente: c’era la possibilità di uno scambio culturale con l’università cattolica in Olanda. Avevo grandi aspettative. Arrivai nel tumulto successivo al Concilio vaticano II (1962-1965). Avevo un solo libro di Maritain, chiesi se avevano qualcos’altro di Maritain, e mi dissero che nessuno leggeva più Maritain da anni, che gli studenti che inizialmente dovevano diventare preti ora si erano sposati, che dimostravano contro il vescovo… e io sono rimasto totalmente scioccato! Soprattutto nel mondo post-comunista, l’effetto dello choc culturale c’è stato. E quando sono tornato a casa dopo questo choc culturale, ho incontrato cattolici ultraconservatori che mi dissero che quelli erano i frutti del Concilio, mi parlarono di sospetti verso la massoneria, gli ebrei… e vissi alcuni mesi in questa atmosfera di tradizionalismo. Grazie a Dio venne la primavera di Praga, nel ‘68, e incontrati preti meravigliosi che passarono molti anni nelle prigioni di Praga e mi mostrarono un cattolicesimo aperto, sognavano una Chiesa senza trionfalismo, povera, una Chiesa che serve, nelle prigioni c’era un ecumenismo spontaneo con i cristiani protestanti, e mi introdussero così allo spirito del Concilio vaticano II. Ma molte persone nei paesi post-comunisti avevano vissuto in isolamento e dopo l’89 hanno avuto uno choc culturale. Alcuni di loro sono ancora in questa mentalità da bunker assediato, “dobbiamo difenderci dai nemici”. Nelle società pluraliste e democratiche non siamo accettati da tutti, ma è una situazione assolutamente diversa rispetto al comunismo totalitario».
Anche nei paesi post-comunisti, come in Occidente, oggi il cristianesimo viene spesso utilizzato dalla politica per attizzare le divisioni nazionalistiche. Come lei ha scritto sulla rivista «America», «il linguaggio laico spesso non è capace di mobilitare emozioni forti nelle situazioni di crisi, e di conseguenza i termini religiosi appaiono spontaneamente nel linguaggio dei politici, anche di coloro che sono molto distanti dalla fede personale e dall’etica religiosa, quando invocano immagini suggestive dall’inconscio collettivo della società». È qualcosa che stiamo vedendo anche nella Russia di queste settimane…
«Alcuni dittatori e leader di regimi autoritari strumentalizzano deliberatamente la religione sul piano politico. Quando Stalin si rese conto che i popoli dell’Impero Sovietico, soprattutto l’Ucraina, non erano pronti a combattere per il comunismo al momento in cui arrivarono le truppe di Hitler per invadere, definì il conflitto come la “grande guerra patriottica”, e i sacerdoti ortodossi, icone in mano, marciarono alla testa delle truppe dell’Armata Rossa. Oggi anche Putin, che è un grande ammiratore di Stalin, dice che la Grande Russia ha bisogno di una spinta spirituale, e quindi cerca di strumentalizzare la Chiesa ortodossa russa. Alcuni leader della Chiesa, d’altronde, sono suoi ex colleghi del Kgb. La propaganda russa punta in particolare ai cristiani conservatori che potrebbero essere in sintonia con Putin, e lo rappresenta come il nuovo imperatore Costantino che salverà il cristianesimo dall’influenza del protestantesimo e del liberalismo occidentale».
Ma questa alleanza col nazionalismo danneggia il cristianesimo anche più del comunismo, secondo Tomas Halik: «C’è una forma di cristianesimo nel mondo di oggi che può essere fonte di ispirazione morale per una cultura di libertà e democrazia? Dobbiamo cercarne una forma che non sia imitazione nostalgica del passato, ma che rispetti il fatto che il nostro mondo non è, e non sarà mai, religiosamente o culturalmente monocromatico, ma è invece radicalmente pluralistico».
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Pomeriggio come maturità, come periodo di consapevolezza e rinnovamento. Questo ha inteso Tomáš Halík scegliendo il titolo del suo libro. Lo spunto gli è venuto dalla metafora che Carl Gustav Jung applica alle dinamiche della vita individuale: l’infanzia e la giovinezza corrispondono al mattino dell’esistenza in cui ciascuno costruisce i tratti fondamentali della propria personalità; poi sopraggiunge la crisi del mezzogiorno, la stanchezza e la perdita di energia per la vita, che però si trasforma in opportunità se si coglie la sfida di interrogare e accettare ciò che di sé si era trascurato o dimenticato. Si è allora pronti a percorrere la via del pomeriggio dell’esistenza, una discesa nell’intimo profondo che porta i frutti preziosi della maturità.
Halík applica questa metafora alla storia del cristianesimo. Il mattino è l’epoca premoderna, con la costruzione delle strutture dottrinali e istituzionali. La crisi del mezzogiorno è rappresentata dalla modernità che, con la secolarizzazione e l’ateismo scientifico e ideologico, ha scosso le fondamenta tradizionali della Chiesa. Adesso l’era moderna ha iniziato il suo declino e per i cristiani è il momento di cogliere i segni dei tempi e riconoscere il kairos pomeridiano che viene loro incontro.
Resistendo alla tentazione di dissolversi nell’indistinto pluralismo postmoderno e guardando oltre le pastoie dell’isolazionismo, un cristianesimo maturo sarà in grado di impegnarsi in un nuovo ecumenismo, in quella ‘fratellanza universale’ alla quale ci sollecita Francesco. E in questo senso Halík tratteggia delle linee prospettiche per una riforma della Chiesa che la veda interlocutore attento della cultura e della società del nostro tempo, come popolo di Dio in pellegrinaggio nella storia, scuola di sapienza cristiana, ospedale da campo in mezzo alla famiglia umana, luogo accogliente di accompagnamento spirituale e riconciliazione.